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A. D’Avenia : : ULTIMO BANCO – 4. Siamo tutti in attesa

«È bella la nostra piscina color verdemare sotto il sole e intorno cespugli che nascondono le case e i viali, così bella che qualcuno di noi si alza ogni tanto, dà un’occhiata comprensiva e fa un passo, poi respirando con un sospiro chiude gli occhi e torna a stendersi tacendo». Così inizia un racconto che amo di Cesare Pavese, Piscina feriale, ambientato in un solare giorno di riposo. Qualcuno, risvegliato dall’inaspettata bellezza che lo circonda, prova ad andare in cerca di qualcosa, poi sospira e tace. È una crepa nel muro di giorni tutti uguali, uno spiraglio: «In verità siamo tutti in attesa». Fu proprio questa tenace e inesauribile attesa, che gli artisti sentono più viva e che forse li rende tali, a portare Cesare Pavese a togliersi la vita il 27 agosto del 1950, lasciando cadere le ultime parole in una stanza d’albergo su una pagina bianca del suo libro più bello: I dialoghi con Leucò. Nato a Santo Stefano Belbo, paesino delle Langhe in provincia di Cuneo, era cresciuto tra colline e vigne, dove aveva imparato a cercare il mito nel quotidiano, perché era convinto, come scrive nel suo diario, Il mestiere di vivere, che «le cose della vita ricevono il loro valore dentro l’eternità, e cioè oltre o sopra la morte». Ma come e dove cercava? Il «Cesare perduto nella pioggia» in folle attesa d’amore, citato da De Gregori in Alice, era un «credente senza fede» (parole di Franco Ferrarotti, tra i suoi migliori amici, nell’aureo Al santuario con Pavese), un cacciatore di divinità che appaiono anche in una piscina. Il protagonista, «per quanto circondato da volti e corpi amici, preferisce lasciarsi sorprendere da improvvise solitudini. C’è della gente che strilla e ride: si direbbe che per loro l’attesa è finita. Si vedono schiuma, corpi nudi, spruzzi; sono ragazzi, sono giochi. Non è ancora questo: non per noi, almeno». Per chi si lascia catturare dai giochi della vita il morso dell’attesa si allenta, ma poi ritorna perché solo chi attende, cioè tende a, «vive la vita»: siamo vivi perché sempre attendiamo qualcosa, ma proprio quando la raggiungiamo, inizia un’attesa nuova. Ci chiediamo allora: «che cosa deve dunque accadere?». E ha mai fine, questa attesa?

«La nudità del cielo fa appello alla nostra. È difficile nascondere pensieri in questa insolita nudità. Ci si riscuote appena, ci si sente visibili come ciottoli in fondo all’acqua». La nudità del cielo – è nudo perché è spalancato – fa sentire noi nudi, semplici come ciottoli levigati, senza maschere: semplice significa avere una sola piega (plica), nudo, al contrario di com-plicato, pieno di pieghe, accartocciato. Il cielo non dà tregua anche se scappiamo: «Non si sfugge, nemmeno nell’acqua, alla solitudine e all’attesa. Qualcuno di noi scende al fondo, a toccare il cemento; è una cosa insolita, e tutti gli istanti che trascorre sommerso nell’acqua verde sono un modo di nascondersi, di essere solo. Quando ritorna tra noi, taciturno, è l’unico che ha l’aria di non attendere qualcosa». Che cosa ha visto? Che cosa ha toccato? Ha trovato risposta? «”Siamo qui per bagnarci e per prendere il sole. Siamo qui per stare insieme”. Ciascuno di noi, se la piscina fosse deserta, non reggerebbe a starsene solo, sotto il cielo». Non sappiamo stare sotto il cielo, non ricordiamo più cosa sia l’eternità che dà valore alle cose oltre la morte e alla morte ci sottomettiamo. La compagnia degli uomini non basta, anzi amplifica l’attesa: «siamo tutti inquieti, chi seduto e chi disteso, qualcuno contorto, e dentro di noi c’è un vuoto, un’attesa che ci fa trasalire la pelle nuda». Così finisce il racconto: il corpo nudo è carne assetata, che s’agita attorno al vuoto dell’attesa. È una sete d’amore continua, non fisica, ma metafisica: un rumore d’acque che non troviamo. Pavese ne conosceva l’arsura, e la delusione amorosa ricevuta da Constance Dowling fu solo la causa contingente del suo suicidio a soli 41 anni: la bella attrice americana rappresentò per lui l’ultima speranza di recuperare l’innocenza perduta, la purezza che aveva cercato nelle cose umane, senza esserne mai soddisfatto. Era in attesa di quegli dei che però, come dice la dolorosa chiusura del suo libro-testamento (I dialoghi con Leucò), non riusciva a trovare. E noi? Se ciò che attendiamo non arriva? Se, illusi e delusi, finiamo all’ultimo banco, dove non s’attende più nulla?

È questo il momento di stringersi agli altri, chiedere aiuto, alzare gli occhi al cielo, accettare la nudità di creature che non sanno darsi una vita che bramano eterna. Le madri, in attesa, si accarezzano il grembo con una mano, e con l’altra sorreggono la schiena: la loro attesa è insieme faticosa e dolce. Eppure la vita cresce solo quando, coraggiosi, le diamo spazio, amando e lasciandoci amare. Questo – le madri lo sanno – ci rende pronti a ricevere ciò che attendiamo.

Fonte: Corriere.it

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