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Fra Chiesa e cinema, il senso del ‘900

È appena giunto in libreria per le edizioni Marietti 1820 il volume del vicecancelliere della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, Dario Edoardo Viganò, Il cinema dei Papi. Documenti inediti della Filmoteca Vaticana (pagine 176, euro 13). Proponiamo l’introduzione del saggio a cura dello stesso autore. Testo che illustra come la Filmoteca costituisca un punto di vista originale per comprendere le profonde trasformazioni intervenute nell’immagine del papato e nel rapporto tra Chiesa cattolica e cinema.

Il 16 novembre 1959 è una data importante nella storia del rapporto tra i cattolici e il cinema. Quel giorno Giovanni XXIII, a poco più di un anno dal suo insediamento sulla Cattedra di Pietro, inaugurava la Filmoteca Vaticana, portando così a compimento l’intuizione coltivata all’inizio di quel decennio dal suo predecessore Pio XII. L’evento in sé era carico di potenti simbolismi perché, come non mancò di notare la stampa dell’epoca, la nuova istituzione trovava sede nel cuore del Vaticano nei locali di Palazzo San Carlo che quindici anni prima erano divenuti il centro logistico di quell’Ufficio informazioni per i prigionieri di guerra che era stato l’esempio più significativo del felice connubio tra un’alta esperienza di comunicazione e l’esercizio della carità della Chiesa al suo massimo grado. Già tre anni dopo la fine del conflitto in realtà Pio XII aveva insediato lì la Pontificia Commissione per la cinematografia didattica e religiosa e subito si era cominciato ad allestire una saletta di proiezione al piano terra del palazzo, che poi sarebbe divenuta col tempo una sorta di “cinema del papa”, ancor oggi centro nevralgico dell’attività della Filmoteca vaticana.

Ma al di là di queste simbologie contingenti, quella data si può dire rappresenti uno spartiacque nel rapporto tra la Chiesa e il cinema, o meglio il crocevia di una transizione che l’evento del Concilio avrebbe completato. L’istituzione della Filmoteca vaticana può essere infatti guardata sia come l’atto finale di una relazione con i media ancorata alla strategia della doppia pedagogia (in equilibrio tra ammonimento e incoraggiamento), fulcro della prospettiva della Chiesa di Pio XII, sia come l’annuncio della profonda rivisitazione del rapporto tra i mezzi di comunicazione di massa e l’azione ecclesiale, esito di quella nuova attenzione ai «segni dei tempi» proposta dal pontificato giovanneo. In occasione dei sessant’anni della Filmoteca vaticana, tornare dunque a rileggere quei passaggi significa porsi nel centro di una cruciale fase di trasformazione che, non per caso, da qualche tempo intercetta gli interessi degli studiosi dei media. D’altra parte, è stata proprio la Segreteria per la Comunicazione della Santa Sede (divenuta Dicastero nel 2018) a favorire, fin dalla sua istituzione nel 2015, l’attenzione dei ricercatori su questi temi, ponendo al centro un iniziale rilancio della Filmoteca vaticana divenuta sede nel 2017 di un primo convegno di studi per i sessant’anni dall’enciclica Miranda prorsus di Pio XII, organizzato in collaborazione con la Scuola normale superiore di Pisa. In tale contesto, questo contributo rappresenta anche l’ultimo sviluppo di un lavoro di ricerca sulla relazione tra la Chiesa e il cinema che ho personalmente cominciato negli anni Novanta concentrandomi sulla realtà ambrosiana: il volume che dedicai alla ricostruzione dell’atteggiamento verso il cinema tenuto dagli arcivescovi di Milano nel corso del Novecento si fondava su una metodologia d’analisi centrata sull’esame di lettere, documenti ufficiali, dichiarazioni, articoli e materiali d’archivio talvolta inediti che, sotto molti aspetti, ripropongo in questo lavoro. Quella ricerca nasceva nel contesto di un interesse coltivato con i ricercatori che allora si erano raccolti con Francesco Casetti attorno alla rivista Comunicazioni Sociali dell’Università Cattolica di Milano nei primi anni Novanta, da cui presero avvio diversi filoni di indagine culminati alla metà del primo decennio degli anni Duemila anche nell’importante collana in tre volumi Attraverso lo schermo. Cinema e cultura cattolica in Italia, editi dalla Fondazione Ente dello spettacolo, che curai allora con Ruggero Eugeni. All’interno e a fianco di questi filoni sono scaturite ricerche su figure rappresentative dell’attivismo delle diocesi lombarde in campo cinematografico (padre Agostino Gemelli, don Angelo Zammarchi, don Giuseppe Gaffuri, don Giuseppe Fossati, padre Nazareno Taddei) o su temi e casi di studio particolari (il cinema missionario, i pubblici cattolici, i film emblematici come La dolce vita).

Alla base del laboratorio storiografico attivato con Eugeni, con l’importante collaborazione di Elena Mosconi, stava una constatazione tanto semplice nella sua evidenza quanto difficile nella sua traduzione in un orizzonte di ricerca: negli ultimi quindici anni circa era emersa con sempre maggiore chiarezza l’impossibilità di una storia del cinema separata dall’orizzonte di una storia della cultura. Ciò che stava venendo in luce nel panorama di studi nazionale e internazionale, in cantieri di ricerca anche molto distanti tra loro per metodologia e presupposti euristici, era che il mezzo cinematografico, fin dalla sua prima apparizione nel panorama mediatico, era stato capace – come scrivevamo con Eugeni – di «autoaffermarsi come fonte indiscussa di radicale ridefinizione dell’immaginario collettivo, dei valori individuali e sociali, delle categorie conoscitive ed interpretative del reale». Il cinema, notavamo, pare il medium che forse più di altri ha contribuito a riorientare i tratti delle culture a esso preesistenti, a segnare il passo della loro successiva evoluzione e a costituirsi per questo, ancora oggi, come ambito di osservazione privilegiato a partire dal quale è anche sempre possibile cogliere gli elementi salienti e generali della più recente storia culturale. Sulla base di questi presupposti lanciavamo la nostra sfida conoscitiva inevitabilmente ambiziosa: quella di ricostruire la complessa e articolata vicenda del rapporto tra la Chiesa e il cinema in Italia, rileggendola in virtù di questa non più eludibile congiunzione tra storia del cinema e storia della cultura.

In questi ultimi dieci anni poi questo filone ha fatto ulteriori e significativi passi in avanti anche livello internazionale, consolidandosi in un più articolato ambito di studi che in Italia è stato favorito soprattutto dal dinamico cantiere di ricerca attivatosi all’Università degli Studi di Milano attorno al progetto I cattolici e il cinema in Italia tra gli anni ’40 e gli anni ’70 promosso da Tomaso Subini. Lo studio del rapporto tra cattolicesimo e cinema è cioè col tempo uscito da una nicchia di ricerche specialistiche, per divenire un argomento attraverso il quale oggi storici dell’età contemporanea, storici del cinema, sociologi, antropologi, si confrontano in campo aperto, affinando sempre più i parametri d’indagine e i paradigmi tassonomici della ricerca. Si sta arrivando così a definire un contesto di ricerca che mostra delle caratteristiche originali che lo differenziano, sotto molti aspetti, dall’esperienza inglese e statunitense dei ‘Religion and Film Studies’. Parafrasando la celebre espressione di Karl Polany si potrebbe dire che cattolicesimo e cinema rappresentano uno dei temi privilegiati attraverso cui studiosi di discipline diverse oggi provano a misurare la portata e le caratteristiche della «grande trasformazione» (politica, economica, sociale, culturale) del XX secolo. Si avverte cioè un’estensione degli ambiti di osservazione che vanno anche oltre la storia della cultura (o della cultura visuale), per fare del rapporto Chiesa-cinema una chiave ermeneutica attraverso cui misurare la reazione del cattolicesimo alle grandi trasformazioni novecentesche in campo politico, economico, sociale.

Fonte: Dario Edoardo Viganò | Avvenire.it

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