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SCUOLA/ Le High Schools americane e l’inganno (italiano) della “maturità”

La “maturità” negli Usa? Nelle migliori High School la “competition” detta legge. Non ci sono voti, e l’esame può essere una tesi o un colloquio

Può un esame misurare la maturità? Chi la misura e in quale modo? Che cosa s’intende per “essere maturi”? A mio parere non c’è forse cosa più difficile. È un po’ come cercare di definire l’amore o la poesia.

Il linguaggio e il metodo sono il problema. Un retaggio storico-culturale è sempre pericoloso perché si finisce per girare attorno allo stesso oggetto prima di concludere che non solo l’oggetto stesso, ma anche la sua tradizione sono la vera questione.

Che cos’è allora questa tradizione scolare? Credo sia interessante vedere come viene elaborata in altre culture, e mi riferirò a quella che conosco meglio: la tradizione statunitense delle scuole più competitive (la parola competition vuole avere una valenza positiva: insegnare agli studenti a dare il meglio di sé, non innanzitutto per superare l’altro, ma sé stessi).

Per un quarto di secolo e per ancora un altro decennio, sono stata docente di lingue e lettere in due istituzioni scolastiche di due Stati: New York e Connecticut. In queste istituzioni scolastiche la diversità è la parola d’ordine, non perché di moda, ma perché ogni scuola privata ha la libertà di fare le proprie scelte pedagogiche, pur senza uscire dagli schemi e nel rispetto dei sistemi generali e nazionali che le vincolano.

Queste scuole che si proclamano “indipendenti” non rimangono isolate: la scuola di New York City appartiene alla National Association of Independent Schools (Nais) e quella di Greenwich alla Society of the Sacred Heart. Sono indipendenti perché le leggi che le governano non sono né scritte né prescritte, ma ci sono, per cui si autogovernano ma senza mai perdere il contatto con l’organizzazione o la società a cui appartengono, e anche con il resto del mondo scolastico del paese.

Parlo di scuole esclusive la cui storia risale in un caso a 164 anni fa (quella di New York City, a Brooklyn, che dal 1854 fino al 1977 era stata scuola solo per maschi, poiché i primi modelli di queste scuole hanno avuto le loro origini in collegi per soli maschi o sole femmine), e nell’altro al 1800, in Francia, come scuola religiosa in quei tempi per solo femmine, per poi estendersi in Europa nell’ottocento e arrivare in Usa nel 1818, dove si trovano oggi 20 scuole in vari Stati.

Il mio passaggio dalla scuola di Brooklyn a quella nella facoltosa città di Greenwich, nel Connecticut, non è stato semplice. Non mi soffermo qui su ciò che significa insegnare in una scuola di sole femmine e non laica, dopo gli anni in cui a Brooklyn anche le femmine erano state ammesse assieme ai maschi, e già questa grande differenze potrebbe indicare strade abbastanza divaricanti.

Sono scuole con forti tradizioni, che dagli accenni appena delineati si dovrebbero intravedere, ma è proprio la caratteristica di appartenere a una tradizione simile, quella di educare o istruire ai livelli più alti, che serve per osservare come la tradizione, in un modo o nell’altro, si svolga sempre in una continua transizione e trasformazione attraverso i lunghi anni delle rispettive storie: la mission, scritta con un linguaggio necessariamente diverso, ha trovato e trova tuttora entrambe le scuole sempre immerse in un costante lavoro di ricerca e innovazione perché la tradizione non sia stagnante, e non diventi né un peso né una camera chiusa e buia.

E vengo ora a quello storico passaggio che in Italia si chiamerebbe “esame di maturità”, in cui gli studenti lasciano la scuola “superiore” per entrare nel mondo del lavoro o dello studio universitario. Come avviene formalmente questo passaggio nelle due scuole? Dovrebbe essere evidente che non avviene nello stesso modo. Un dato che in Italia farebbe gridare allo scandalo; ma la mia vera sorpresa, come di un qualunque docente di High School americano, è esattamente questo strano, inconcepibile egualitarismo al ribasso: un ribasso che, se non si è del tutto ciechi, risulta evidentemente penalizzare proprio gli studenti. Dicevo: la modalità del “passaggio” di cui sopra (l’italiana “maturità”), è stabilita sulla base di una scelta concordata dai professori in costante dialogo con gli amministratori. Unica influenza esterna è la ricognizione di ciò che fanno le altre scuole dello stesso livello, per poi decidere, in proprio, di individuare eventualmente nuove formule.

Nella scuola di Brooklyn abbiamo portato avanti una tradizione che è stata più volte modificata e ora si chiama Senior Plan. Si tratta di un progetto -l’elaborazione di una tesi – che si sviluppa lungo un anno (il titolo di Senior lo ottengono gli studenti nell’ultimo anno: nei 4 anni di liceo si passa da Freshman a Sophomore, poi si diventa Junior e infine Senior).

In questo lavoro di tesi lo studente è accompagnato da un professore (Faculty Advisor) in una materia di suo interesse nell’ambito di un tema che cambia di anno in anno (ricordo l’anno in cui si passò da una vecchia scelta fra cinque libri da leggere – afferenti a diverse discipline – al progetto tematico, molto più ambizioso ed entusiasmante, scelto da noi professori: il tema quell’anno era “Brooklyn”, e la fantasia intellettuale degli studenti fu fantastica, io personalmente imparai di quella città moltissime cose che ignoravo).

Secondo questo schema, a giugno lo studente deve affrontare una commissione di professori davanti ai quali tiene una conferenza di 20 minuti, rispondendo poi alle loro domande per altri 20 minuti. Se non si dimostra abbastanza preparato torna, entro qualche giorno, e ripete la presentazione. Non ci sono voti numerici, solo “Passa”, “Passa con onore”, “Passa con alti onori”.

La scuola di Greenwich, diversamente da quella di Brooklyn, non ha una tradizione di questo tipo, per cui alle studentesse non viene richiesto nulla di specifico alla fine. In riunione, noi professori esaminiamo la storia dei quattro anni liceali delle studentesse e, secondo i voti acquisiti nelle varie discipline e gli esami d’accesso alle università – che sono nazionali, mai statali, e vengono puntualmente messi in discussione a questo punto dell’anno scolastico sulle pagine del New York Times e del Washington Post – noi decidiamo insieme se il loro diploma sarà semplicemente Diploma o Diploma with Honors.

I valori di riferimento stanno nella nostra coscienza di docenti, e ci chiedono se ci sia stato ogni tentativo possibile da parte nostra per incoraggiare gli studenti a scoprire i loro talenti e dimostrare le loro abilità, e in secondo luogo se li abbiamo preparati nel migliore dei modi per il “salto”, che sempre c’è, da queste scuole – molto costose, va detto – ad un campus universitario, per un futuro di impegno e studio responsabile, non più sotto la tutela dei genitori. È l’autonomia intellettuale dello studente o della studentessa l’obiettivo a cui tutti si lavora, in una cultura che li vuole alla ricerca della “maturità”, prima all’università e poi nella vita. Ma quale maturità? Quella intellettuale, sociale e morale, che rimane un loro dovere personale e il frutto di un loro naturale sviluppo esistenziale.

Fonte: Graziella Sidoli | IlSussidiario.net

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