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Fine vita. La posta in palio è la visione dell’uomo nella nostra società

«Un piccolo miracolo» è la definizione ricorsa più volte giovedì di fronte alla nutrita aggregazione di associazioni cattoliche e rappresentanti politici in occasione del seminario Diritto o condanna a morire per vite “inutili”?. Già, perché è raro ormai vedere i cattolici muoversi uniti. La diaspora è iniziata molto tempo fa e le divisioni hanno spesso prevalso in nome della purezza di intenti. Giovedì no, finalmente un segnale nuovo, che non ha nulla di miracoloso, se non la pazienza e il serio lavoro degli organizzatori, che hanno saputo chiamare a raccolta gli uomini di buona volontà di fronte ad un tema fortemente sensibile come l’eutanasia.

Il seminario si è aperto con una preghiera per Vincent Lambert, doverosa e di monito. Forse non tutti hanno consapevolezza che ciò che è accaduto a lui potrebbe accadere a chiunque anche da noi in seguito alla legge sulle Dat, che, malgrado non lo si dica, ha già un profilo eutanasico, equiparando nutrizione e idratazione a trattamenti terapeutici, quindi ritenuti cura che si possono sospendere con l’accordo di medico e tutore legale, senza nessun ricorso al giudice.

A partire da questo spiraglio il “caso Dj Fabo” è diventato l’occasione per sollevare davanti alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell’art. 580 del codice penale, che punisce l’aiuto al suicidio come l’istigazione al suicidio. Secondo il giudice a quo il 580 è superato, poiché si rifà ad una visione di uomo tipica dell’epoca fascista, non adeguata ai nostri tempi, in cui l’aiuto al suicidio non merita più di essere punito.

La Corte costituzionale ha dato tempo fino al 24 settembre al Parlamento per legiferare in merito, altrimenti ha già di fatto annunciato nell’ordinanza 207 del 2018 che deciderà per l’incostituzionalità dell’art.580 e a quel punto sarà la giurisprudenza dei casi concreti a far legge o al Parlamento resterà la possibilità di intervenire a posteriori, ma senza più un confronto aperto, solo adeguandosi alla sentenza della Corte.

Questi in grande sintesi gli antefatti. Il valore del seminario di giovedì sta principalmente nell’aver chiesto dal basso un intervento urgente alla politica, quantomeno l’apertura di un dibattito pubblico. La politica ha risposto, con la presenza del sottosegretario Giancarlo Giorgetti e di almeno un parlamentare per ogni partito, lasciando intravedere ipotesi di intesa trasversali che potrebbero portare all’elaborazione di un testo di legge, a partire magari dalla proposta Pagano, per arginare l’ingerenza della Consulta e non lasciare che si crei un vuoto normativo. L’ipotesi più probabile può essere l’attenuazione di pena dell’aiuto al suicidio solo per fattispecie specifiche e circoscritte (familiari stretti, malato con diagnosi infausta, inefficacia delle cure palliative, dipendenza da trattamenti sanitari, volontà espressa in condizioni di capacità di intendere e volere).

Al di là della questione di merito, spiegata in dettaglio in numerosi articoli, vorrei soffermarmi su quella di metodo. Il seminario di giovedì ha dimostrato che c’è tanto desiderio di lavorare e lavorare insieme per sostenere i valori imprescindibili, come il valore alla vita, c’è però bisogno di costruire occasioni per ritornare a proporli apertamente e con argomenti adeguati nel dibattito pubblico, senza timori reverenziali, senza timidezza, in un confronto franco, carico di ragioni. Il metodo unitario è vincente anche per essere interlocutori credibili nei confronti della politica.

La vita è un bene che sta a cuore ad ogni uomo, il dolore del malato tutti sono d’accordo di doverlo alleviare, l’accanimento terapeutico è unanimemente ritenuto inaccettabile, quello che entra in gioco allora è un livello più profondo del dibattito, oramai la biopolitica è arrivata a toccare aspetti dettagliatissimi della gestione della vita, serve un confronto per il quale occorre essere preparati, informati, educati.

Nell’epoca degli slogan si rischia di considerare un’utopia questo livello di confronto, giovedì si è dimostrato il contrario, è possibile. Certo occorre un lavoro, in cui ciascuno deve fare la sua parte per ricostruire.

Sentir dire da più associazioni che si occupano a vario titolo di malati terminali o di gravi cerebrolesioni acquisite (Gca) a partire dal coma, che in decenni di attività nessuno ha mai chiesto di morire deve pur far sorgere qualche interrogativo; mentre per un caso singolo si ritiene imprescindibile fare una legge e si scomoda addirittura la Corte costituzionale, che emana un’ordinanza in cui indica al Parlamento criteri per legiferare costruiti sul caso concreto del processo Cappato.

Ma quando né malati, né familiari chiedono la morte? Quando sono accompagnati, quando sono sostenuti nell’affrontare la sofferenza, quando sono aiutati a trovare un senso anche nella situazione estrema, quando in quella circostanza dolorosa scoprono un livello di rapporto che sarebbe loro altrimenti precluso, una dimensione che solo l’esperienza può insegnare, tutto diventa più intenso e allora si capisce che anche quella è vita e vita degna, fino all’ultimo. La dignità non è una dimensione misurabile o parcellizzabile, è assoluta, sempre. Quello che cambia è il livello di assistenza di cui lo Stato è capace e allora è la società ad essere più o meno degna, più o meno civile, a seconda del livello di assistenza che sa offrire ai più deboli. Proporre per legge la morte come soluzione al dolore è la resa della società, la fine del principio di solidarietà, il fallimento di un sistema.

All’origine delle rare richieste di morte, c’è il senso di solitudine, il sentirsi un peso per i familiari, il non percepirsi più all’altezza delle aspettative proprie e altrui, più che il dolore, che oggi con la palliazione può essere alleviato quasi a tutti i livelli.

Ma qui si apre un capitolo spinoso, l’applicazione della legge 38 del 2010 sulle cure palliative è ampiamente disattesa, l’accesso a tali cure non è garantito a tutti in modo uguale, il sistema di assistenza sul territorio non funziona, mancano risorse umane ed economiche, la legge non viene finanziata.

Eppure non ci sono casi politicizzati per l’applicazione della palliazione per tutti, ma per introdurre l’eutanasia sì. È evidente che si tratta di uno scontro ideologico. Due visioni di uomo a confronto: la vita umana che ha valore in sé contro la vita umana che ha valore in base alla sua efficienza. La dignità intesa come valore assoluto, concetto alla base della cultura occidentale e dei diritti umani, o la dignità come valore relativo, in funzione della percezione soggettiva.

La percezione soggettiva è chiamata autodeterminazione, e l’autodeterminazione si fa passare per libertà, così che di fronte alla libertà individuale ogni muro debba cadere. Invece l’autodeterminazione è l’espressione di una volontà individuale che non si può presupporre libera, perché esposta a mille condizionamenti culturali sociali e familiari. E comunque la libertà personale ha dei limiti, quindi anche se l’equivalenza fosse vera, implicherebbe che l’autodeterminazione non può essere assoluta.

Autodeterminazione non può essere considerata neanche sinonimo di dignità, come spiegava bene Alfredo Mantovano giovedì al seminario, perché dignità è un concetto oggettivo, assoluto, autodeterminazione no. Lasciare per inerzia il compito di legiferare ai giudici implica delegare decisioni di vita e di morte ad organi diversi dal Parlamento, allora c’è da chiedersi a cosa serva la democrazia, se non ci interessa che i nostri rappresentanti si occupino di questo, meglio un Parlamento di economisti e giuristi, almeno avremmo leggi efficaci e scritte bene.

Assuntina Morresi ha ben chiarito la posta in gioco, dove siano arrivate le derive eutanasiche in Europa e Australia e quanto è rapido il percorso per arrivarci. Si comincia con l’inganno terminologico, eliminare il termine eutanasia e far passare le morti procurate per trattamenti sanitari, creare procedure a cui i medici devono attenersi eliminando così ogni obiezione di coscienza, dei medici, che non possono sollevarla, della società che si assuefà rapidamente a nuove procedure che normano e quindi normalizzano l’anormale.

È necessario parlare, scuotere l’opinione pubblica, rendere consapevoli le persone, perché tutto ciò non accada sopra le nostre teste e domani avere il rimpianto di non essercene neanche accorti. Occorre un lavoro culturale ed educativo che sostenga nella società civile l’azione dei politici più attenti e degli operatori sanitari impegnati sul campo. Per questo è stato positivo che fossero presenti associazioni impegnate su più fronti, dai medici, obbligati a seguire le norme, spesso in solitudine: Ordine dei medici, Agenas, Fnomceo, a chi si occupa di assistenza a malati terminali o disabili gravi, tra cui Hospice Villa Speranza, Ass. Risveglio onlus, Comunità Papa Giovanni XXIII, a quelle che possono sensibilizzare le persone non direttamente coinvolte nelle tematiche del fine vita: l’associazione culturale Esserci, Mcl-Movimento cristiano lavoratori, Associazione Nonni 2.0. L’auspicio e il proposito è che il seminario di giovedì sia solo l’inizio di un lavoro.

Fonte: Elena FRUGANTI | Tempi.it

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