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Alessandro D’AVENIA – 55. Le parole prime

Gli occhi dei bambini sono così aperti che la responsabilità per ciò che racconterò mi fa trepidare. Sono più di duecento quegli occhi puntati su di me, sei terze classi della primaria. Il tema dell’incontro è affascinante ma impegnativo: come si scrive un diario? Vedo le loro dita, capaci di una grafia ancora acerba, in attesa sulle pagine bianche. Ho cominciato leggendo l’inizio di Oscar e la dama in rosa di Eric Emmanuel Schmitt: il protagonista è un bambino di 10 anni che, nei giorni della sua degenza in ospedale, decide di scrivere un diario rivolgendosi a Dio. Sin dalle prime righe emerge che tenere un diario significa non poter mentire a se stessi. Questo genere di scrittura, oggi più che mai, è necessario per bambini e adolescenti, perché nasce dal bisogno di ritrovare l’io perduto. In un tempo come il nostro in cui l’io è disgregato, frammentato, confuso, per ragioni culturali e relazionali, scrivere un diario è un modo in cui ci si concede la possibilità di non perdersi nel caos e non essere schiacciati dalla vita. La frammentazione o destrutturazione della cosiddetta «conversazione interiore», l’originaria capacità che abbiamo di dire «io», oggi ferisce a morte la crescita personale. La solidità della conversazione interiore è ciò che ci consente di diventare «soggetto» (ciò che sta sotto): l’io a fondamento di tutti gli io provvisori che indossiamo a motivo di ruoli e compiti. Senza l’io-soggetto ci dissolviamo, con grande sofferenza, nei centomila e nessun io che le circostanze della vita richiedono.

Il diario è una forma di scrittura che libera e fa crescere l’io-soggetto, la cui dissoluzione porta all’estraneità a se stessi, che si manifesta con confusione, tristezza, paura, ansia… Il soggetto disperso avverte il bisogno di rivelare a qualcuno la propria vita per poterla salvare, cioè ritrovare l’unità di senso che dà pace e gioia. Le Confessioni di Agostino, il Diario di Kierkegaard, Il mio cuore messo a nudo di Baudelaire, i Diari di Kafka, il Diario di Etty Hillesum, Il mestiere di vivere di Pavese... hanno in comune la crisi di un io che cerca unità e pace. Per questo il diario ha bisogno di un «tu» più o meno esplicito. Ho chiesto allora ai bambini di sceglierne uno e hanno scelto chi amano di più: genitori, fratelli, amici, nonni… Perché? Perché quel tu accoglie e raccoglie i nostri frammenti sconnessi. Ho quindi spiegato loro che per questo il diario è «segreto», parola latina che indica ciò che si sceglie per sé separandolo da tutto: l’intimità è il luogo senza cui è impossibile vivere il proprio «io». Perché necessitiamo di un tu che accolga l’io «segreto»? Perché siamo esseri relazionali e il soggetto emerge solo se entra profondamente in relazione: ama ed è amato.

Nel finale del grandioso poema drammaturgico di Ibsen, Peer Gynt, il protagonista si trova davanti al Fonditore di Bottoni, la morte, e si sente dire che la sua vita è stata inutile, è fuggito dal suo destino, e ora sarà quindi fuso come un bottone di metallo malriuscito, per riciclare la materia vitale che gli era stata inutilmente attribuita. Peer Gynt non è nulla e quindi deve tornare nel nulla. Egli si ribella: «Voglio fornire le prove che in tutta la mia vita sono stato me stesso». Chiede un rinvio: «Dammi in prestito a me stesso!». Egli vuole trovare qualcuno disposto a testimoniare che la sua vita è valsa qualcosa. Il Fonditore accetta, sapendo che non troverà nessuno, è stato un ignavo: una nullità che al nulla appartiene. Peer Gynt non trova testimoni se non, in extremis, la donna che lo ha sempre amato ma che lui, per mancanza di coraggio, ha abbandonato e dimenticato. Quando le chiede, disperato: «Dov’ero? Dov’era il mio io vero, intero?», Solvejg risponde: «Nella mia fede, nella mia speranza e nel mio amore», e gli canta la ninna nanna che Grieg ha magistralmente tradotto in musica. Peer Gynt si addormenta e si salva, per meriti non suoi, dalla «con-fusione» nella materia informe degli uomini che dimenticano il «segno che Dio ha impresso sulla loro fronte»: un io che non è amato e non ama si riduce al nulla.

Amare è diventare testimone della vita di qualcuno ed essere amati è avere un testimone per la propria: un Tu che sempre accoglie la nostra vita così com’è, anche quando sembra inutile e perduta. Dietro al Tu dei diari si cela un amore divino, che mai si stanca di testimoniare a favore dell’io «vero e intero» che, come Peer Gynt, smarriamo. Questo tu non è una finzione narrativa utile ad auto-assolversi, ma una voce-sguardo che abita in noi e ci fa riconoscere la verità. Oscar, il bambino del romanzo citato, rivolge infatti direttamente a Dio il suo divertente e doloroso diario; una bambina presente al mio incontro ha scelto la bisnonna centenaria, mancata da poco, e di cui porta il nome.

Ho poi spiegato loro che il diario, da dies (giorno), si nutre d’una materia molto ordinaria. «Nulla die sine linea», diceva Plinio del pittore Apelle: non lasciava passar giorno senza tracciare almeno qualche linea, e noi potremmo dire almeno qualche riga, perché senza la scrittura, esercizio costante che unifica spirito e corpo, mente e mano, l’uomo tende a «smembrarsi», mentre quando scrive «rimembra», ritrova, giocando con la parola, la sua unità. Come spiega Cristina Dell’Acqua nel suo bel libro dedicato ai classici (Una spa per l’anima), «meditare» ha la stessa origine di «medicare»: chi medita cura e si prende cura di sé e del mondo, invece chi non ha vita interiore naufraga nelle tempeste della vita.

Poi ho chiesto ai bambini di scrivere nella prima pagina bianca la parola che amano di più. Amicizia, fratello, amore, inter, vita… Mi ha stupito la bambina che ha scelto: magari, senza sapere che è una parola bellissima, che indica il desiderio umano, da una radice greca che significa «felice». Ognuno pronunciava la sua parola con il sorriso totale che accompagna quelle che chiamo «parole prime»: uniche, sorgive, indivisibili, come i numeri primi. Ho chiesto loro dove stavano queste parole? Un bambino, con metafora perfetta, ha risposto: «Nel fondo del cuore». Le «parole prime» si annidano in quello che Amleto chiama «il cuore del cuore» e i mistici «la settima stanza», dove noi vediamo noi stessi con gli occhi del tu amante, che Agostino definiva «più intimo a me di me stesso». Lì, Io e Verità sono tutt’uno, e per questo da lì e solo da lì si libera e sgorga la Vita, in forma di parola e azione.

Allora abbiamo disegnato un cuore, dividendolo nelle sue quattro stanze, atri e ventricoli. Quattro zone in cui scrivere: la cosa più bella del giorno prima, la cosa più brutta del giorno prima, la paura più grande, il desiderio più grande. Le prime due riguardano il passato, le altre due il futuro e così il cuore diventa il presente in cui si incontrano passato e futuro. Poi ho chiesto di riempire ogni stanza con una sola parola che rappresentasse la risposta e scrivere: «Caro Tu, questo oggi è il mio cuore». Un bambino ha scelto queste quattro parole: litigio (la cosa più brutta di ieri), ridere (la cosa più bella di ieri), male (la paura), casa (il desiderio); e poi, arricchendo la consegna, ha scritto: «Caro papà questo oggi è il mio cuore e spero che sia anche il tuo». L’aggiunta ci ha fatti ammutolire, rivelava il cuore del cuore di un bambino il cui papà è lontano. Attraverso la scrittura le cose invisibili diventano visibili e quelle visibili, ma disperse, vengono raccolte (non a caso in italiano parliamo di «raccoglimento»). E solo le cose rese «visibili» diventano «vivibili».

Il lavoro continuerà in classe e a casa. A poco a poco i bambini impareranno a raccontare più diffusamente le quattro parole al Tu scelto: ogni giorno una cosa bella, una brutta, una paura, un desiderio, cioè quanto di più segreto abbiamo e siamo. La scrittura ossigena le parole e le distribuisce alla vita, proprio come accade al sangue nel suo viaggio circolatorio. La parola non è un’astrazione o un fantasma, ma sangue, arterioso o venoso, che si fa pensiero e azione: attraverso la parola ben scelta ha luogo la riflessione, cresce la conversazione interiore, il soggetto si rafforza e impara a giudicare cose ed eventi, il tutto grazie all’amore-tu che accoglie e raccoglie gli sparsi frammenti dell’anima. I bambini erano felici di aver trovato, in poco tempo, tante cose invisibili depositate «nel fondo del cuore»: scriverle ha reso quelle brutte meno dolorose e oscure (vivibili), e quelle belle più certe e luminose (vissute). La somma di vissuto (memoria) e di vivibile (speranza) è il «raccoglimento» che ci permette di dire al presente: Io. Sembrava un gioco, ed era la vita.

Il letto da rifare oggi è regalare un diario ai vostri bambini e cominciare a farli scrivere ogni giorno, un cuore con quattro parole a un tu testimone e amante, che li aiuti a coltivare la conversazione interiore, a non aver paura di aver paura, a innaffiare i desideri, a trovare ogni giorno la cosa bella che salva e la cosa brutta da curare o cambiare. Bastano pochi minuti: si innamoreranno delle «parole prime» e scopriranno che scrivere è noioso solo quando la posta in gioco è bassa, cioè quando non è la vita stessa.

Fonte: Corriere.it

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