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Alessandro D’AVENIA – 52. Maestrocrazia

Gli spalti del palazzetto sono gremiti. Mi siedo e sotto il tavolo mi tremano le gambe: devo raccontare Leopardi a 4.000 ragazzi. Sono convenuti a Firenze per tre giorni (7-9 marzo) per una delle eccellenze (poco raccontate) della scuola italiana. Un convegno annuale su un maestro delle nostre lettere, dedicato a ragazzi delle superiori di ogni indirizzo, guidati dai loro insegnanti. Colloqui fiorentini, questo è il nome del convivio inaugurato nel 2002, richiedono una seria preparazione: i professori iscrivono le classi che studieranno l’autore in questione, indipendentemente dal programma in corso e che formuleranno tesine e lavori creativi. Ai due interventi mattutini, a cura di professori, artisti, filosofi… seguono, nel pomeriggio, approfondimenti e presentazioni dei ragazzi che un comitato scientifico premia; il tutto è arricchito da visite alla città a cura dei ragazzi del luogo. Ogni anno il numero di docenti e studenti partecipanti aumenta, tanto che è stato necessario servirsi del Mandela Forum. Tutto nasce dall’intuizione di alcuni professori capitanati dai Baroni (di cognome), padre e figlio, insegnanti stufi di un modo di studiare la letteratura che porta i ragazzi a odiarla, come da tempo rilevato da maestri come Todorov in La letteratura in pericolo e Steiner in Vere presenze. Qualche anno fa portai una classe ai Colloqui dedicati a Foscolo che, liberi da programmi e verifiche, ci si svelò come non mi era mai accaduto: nonostante il convegno cadesse durante le vacanze di carnevale, partecipò tutta la classe e la collega di Arte, intrepida, si unì a noi e ci svelò Firenze. L’edizione di quest’anno era dedicata a Leopardi, per i 200 anni dell’Infinito: mai avrei sognato di raccontare uno dei miei maestri a una classe silenziosa di 4.000 ragazzi, già ferrati in materia.

Erano 1.600, invece, gli studenti di sei Istituti di formazione professionale del Lazio, promossi dai salesiani, al teatro Sistina di Roma per una mattina dedicata al mio libro «Ciò che inferno non è», oggetto di lettura e lavori annuali declinati nei vari ambiti formativi (elettronica, ristorazione, turismo, grafica…). Per molti si trattava del primo libro letto, ed è stato confortante vedere ciò che la parola di carta può ancora fare in anime assetate di senso. «Non mi emoziono quasi mai, l’ultima volta è stato per Roma – Barcellona: 3-0. Non credevo potesse accadere per un libro»: il commento di un ragazzo mi ha fatto sorridere e riflettere. Era tutto merito del progetto ideato e seguito con pazienza e fatica da dirigenti e docenti, che culminerà a maggio in una festa con premiazione degli elaborati migliori.

Due stelle che ruotano una attorno all’altra: sono stati 13 ragazzi dello scientifico Iris Versari di Cesano Maderno a scoprire una cosiddetta «stella doppia», che hanno deciso di chiamare LICEOIRISVERSARI VI. Il loro docente di fisica e matematica, Massimo Banfi, ha avviato un laboratorio astronomico con la collaborazione del suo ex alunno Pietro Aceti, presidente dell’osservatorio di Seveso. Gli studenti, ispirati e guidati dal docente, avvalendosi sia dell’osservatorio lombardo sia di un altro dislocato nella campagna piemontese, guidato da loro stessi via internet da casa, hanno scrutato e misurato nel tempo degli oggetti celesti, fino a trovare la nuova «stella doppia». L’Association of Variable Stars Observers dell’Harvard Observatory ha attribuito a loro e ai docenti la scoperta.

Eventi del genere mostrano che i ragazzi, se ispirati, sono pronti a impegnarsi, ben oltre l’orario scolastico, con energie che crediamo non abbiano. Quelle energie ci sono ma solo i veri «maestri» riescono ad attivarle con una «materia» indicata come «essenziale a vivere di più»: i ragazzi si muovono verso il sapere solo se, come dice la parola, ha sapore. I maestri riescono a mettere i ragazzi in contatto con uomini e scoperte che danno luce alla vita e la indirizzano al fine che ci realizza come uomini: custodire e creare. Ma a far la magia non bastano né la materia né l’insegnante competente: ingredienti necessari ma non sufficienti. Ci vuole: «maestria». Ricordo ancora l’assurdo consiglio ascoltato da un docente della scuola di specializzazione per l’insegnamento: «Se sbagliate e i ragazzi se ne accorgono, continuate ad affermare ciò che avete detto. Siete maestri, non potete sbagliare!». Proprio il contrario di ciò che rende tale un maestro e attrae i ragazzi. La «maestrocrazia» non sta nel potere conferito dal ruolo o in un’illusoria infallibilità, ma nel voler essere ancora «ammaestrati» dalla vita, come diceva la grande poetessa russa Marina Cvetaeva: «Chi ascolto oltre la voce della natura e della saggezza? La voce di tutti i mastri e maestri. Quando recito una poesia sul mare e un marinaio che non capisce nulla di poesia mi corregge, io gli sono riconoscente. Lo stesso con il guardaboschi, il fabbro, il muratore. Ogni cosa che mi viene donata dal mondo esterno mi è preziosa, poiché in quel mondo io sono una nullità. Ma quel mondo mi è necessario ogni minuto». Il maestro non è tale perché infallibile, ma perché continua a lasciarsi educare: è credibile se anche lui, come i ragazzi, è impegnato a crescere. Educare non è tirare fuori la statua dal marmo, ma conferire alla statua il desiderio di vivere in carne e spirito, contagiare ad altri il coraggio verso se stessi, perché possano conquistare la libertà imprigionata nella pietra della paura, dell’ignoranza, della comodità. Non serve raffinare metodi e strumenti perché i ragazzi ascoltino se il maestro non è proteso, lui per primo, a vivere più pienamente, e allora gli basteranno conoscenza, parola e corpo. I maestri devono sì rendere i ragazzi com-petenti (tesi insieme a una meta), ma soprattutto con-vitati (partecipare insieme al banchetto della vita): la scuola è un «convivio» in cui il maestro di tavola, per primo, si nutre e vive di ciò che imbandisce. Le energie dei ragazzi, imprigionate dalla paura di fallire o di dover faticare, si liberano se vedono le ferite e il coraggio in chi li educa: possono così vivere la loro ricerca di pienezza non come vergogna, ma come risorsa. Maestro e allievo sono impegnati, insieme, a diventare ciò che devono diventare. La parola maestro, dal latino magister (chi è di più), indica il di più di apertura e servizio alla vita, non di potere sulla vita. Quel di più viene dall’esperienza della propria vitale incompiutezza che coinvolge altri «incompiuti» nella ricerca di pienezza, il contrario di un docente che, invidioso del seguito di un collega, si sentì dire da uno studente: «Andiamo da lui perché lui si stupisce che andiamo da lui, non veniamo da lei perché lei si stupisce che non veniamo da lei».

Il maestro non può essere ridotto a un giudice di indicatori quantificabili (le competenze): la conquista di libertà non è quantificabile. L’energia creativa del ragazzo si libera solo quando la trova nel maestro, che a sua volta la trova nei suoi maestri: i grandi uomini delle scoperte e delle opere che studia e racconta. I maestri nascono dai maestri, vi attingono il coraggio, verso se stessi e la vita, e la verità che rende allievi di un passato che non passa e apre quindi un futuro che sta a noi fare. Prima di iniziare un autore mi chiedo sempre: in che modo ha ampliato la mia vita e quale vita può sprigionare nei ragazzi di questa classe? La verità afferra solo se si dà come vita, cioè se è una verità «sentita». Così Leopardi, un libro, le stelle, diventano, attraverso i maestri, ciò che sono: vita liberata da ignoranza, paura e comodità. Se un docente non è trasformato da ciò che studia è un ripetitore, e delle lezioni in rete possono sostituirlo egregiamente: nessuno riesce a far innamorare di Dante e Newton se non gli cambiano, cioè liberano, la vita. Il maestro è uno studente che va a scuola dai suoi maestri, i suoi ragazzi studiano perché lui studia e sa dare conto della vita che riceve studiando. Un rabbino diceva che la prima domanda che Dio ci porrà nell’aldilà è: «Chi era il tuo maestro e che cosa hai appreso da lui?», quasi che nell’incontro con i maestri sia data a ciascuno l’occasione per una vita riuscita o sprecata, cosa non scontata in un’epoca di individualisti e sedicenti self-made-men. Occorre quindi cercare buoni maestri: coloro che nel tempo hanno e danno il coraggio di stare nella vita senza scappare, perché della vita hanno bisogno come l’artista della materia, per quanto faticosa e resistente. Gilberto e Pietro Baroni, Massimo Banfi, i docenti dei Cfp del Lazio… sono maestri da concerto al servizio di uno spartito che li precede, bisognosi di tutta l’orchestra per creare il concerto che supera loro e i singoli strumenti. Maestro è chi dà la possibilità all’armonia di accadere al prezzo del corpo e dell’anima, egli vive in sé l’energia che deve trasmettere agli strumenti, un’energia che non è sua ma della musica che lo attraversa, lo possiede e muove. I ragazzi seguono i maestri perché essi «sanno» (conoscono e profumano) di quella vita che da soli, i giovani in formazione, non possono darsi.

Il letto da rifare oggi è stilare l’elenco dei vostri maestri, in carne e/o in spirito (perché i veri maestri sono sempre vivi), con cui tornare a convivio: è il momento di scoprire chi siete o potete diventare grazie a loro e ringraziarli. Se non ci sono nomi nella vostra lista, è il momento di andarli a cercare: ne va della vostra vita. E voi, maestri, fatevi trovare…

Fonte: Corriere.it

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