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Alessandro D’AVENIA – 45. Ma tornerò

Due ragazzi si tengono per mano. Attraversano il ponte delle Catene che, primo ponte permanente sul Danubio, congiunge la città alta, Buda, a quella bassa, Pest. Le loro mani sono come quel ponte, si levano con fiducia ben fondata sulla corrente della vita e della storia, senza paura. Per questo si apostrofano con soprannomi, Mik e Fifi, come tutti coloro che vedono nell’altro un’eccezione cosmica e grammaticale. Hanno occhi ingenui, quelli di Mik un velo di malinconia in più, forse per la madre morta mentre lo partoriva. Lui è la grande promessa della poesia ungherese, lei, insegnante, è la poesia stessa, con un sorriso da bambina sempre posato su occhi di un purissimo azzurro, di cui Mik, diciassettenne, s’era innamorato nel 1926, quando lei ne aveva 14. Sposi dal 1935 passeggiano felici, la storia non può scalfirli, finché qualcuno non decide che per un ebreo la felicità è una colpa da espiare, e così prima impediscono a Miklós Radnóti di insegnare, poi lo mandano ai lavori forzati per periodi più o meno lunghi, finché nel 1944 lo spediscono in un campo di concentramento al confine con la Russia. Il primo messaggio di Mik a Fanni Gyarmati dal campo dice: «Sei tu a dare un senso alla mia vita. Resterò in vita per te». Sono una sola carne, del dolore e dell’amore. Per essere riparati dagli orrori della storia non basta fare memoria solo di quegli orrori, ma anche della vittoria dell’amore su quegli orrori.

Poi la guerra finisce. Fanni sa che Miklós tornerà e lo va a cercare: chi ama non aspetta. Segue le tracce che la violenza cerca invano di cancellare, come un segugio fedele riconosce tra diversi e mischiati odori quello di casa. Il primo campo dove era stato portato è vuoto: quando gli orsi di Stalin avevano inseguito i lupi di Hitler, questi si erano allontanati dal confine e avevano spostato i prigionieri in una località più all’interno, Bor, dove avrebbero lavorato in miniera. I prigionieri avevano marciato in una notte oscura e ghiacciata di fine 1944. La maggior parte li divorò l’inverno, al resto ci avrebbe pensato l’inferno del campo. Così, ripercorrendo i passi di quella marcia, Fanni insegue le orme di Mik fino a Bor, dove i soldati stanno esplorando le baracche di prigionia, e anche qui sembra tutto vuoto. Ma mentre lei passeggia in mezzo ai terreni muti d’agosto ricorda un verso di suo marito: ero fiore, sono diventato radice. Più che ricordarlo lo sente: le persone che si amano si parlano continuamente, su una frequenza in cui il loro dialogo è costante e raggiunge, anche se sussurrato, le orecchie allenate dall’esercizio del noi. Forte di quel verso, chiede ai soldati di scavare dove ha visto un arbusto con dei bianchi fiocchi di cotone. È solo la pietà verso una vedova piegata dal dolore che li porta ad assecondare la richiesta ma lei sa che amare è dire all’altro: tu non devi morire e io farò di tutto perché ciò non accada, tu non devi morire e io farò di tutto perché ciò non accada…

Sotto quell’arbusto la terra compatta è più scura e cedevole.
Le radici di quel fiore affondano nella fossa comune, dove un anno e mezzo prima erano stati gettati i corpi congelati dalla marcia verso Bor o i morti dei mesi successivi. Tutti uguali e irriconoscibili, con gli stracci ormai incollati alle ossa. Ma dove gli occhi dei soldati vedono solo cadaveri, Fanni vede ricordi. E così scorge un cappotto dal colore familiare, si china e fruga nelle tasche. Da una delle due esce un taccuino con eleganti segni blu sulla carta slavata. La grafia è quella curata di Mik, la stessa con cui, due anni prima, le aveva scritto per il loro anniversario l’ultima cartolina: «Grazie per questi nove anni passati insieme». Gli accapo tradiscono parole in poesia. Comincia a leggere: «Vedi, cara, il campo dorme, i sogni frusciano,/chi si sveglia di soprassalto si rigira nel suo stretto lembo,/e di nuovo sprofonda nel sonno con il volto che si illumina. Io solo/sono sveglio, seduto assaporo la cicca in bocca invece di un tuo bacio/e il sonno tarda a portarmi conforto, perché/ormai non posso più morire né vivere senza di te». Quei versi sono il dialogo ininterrotto che Mik ha intrattenuto con lei durante la prigionia, e a chi raccontare il male del mondo se non all’amore che avrebbe potuto trasformarlo in bellezza e redimerlo? Quel dialogo non è in differita, ma accade nell’unico tempo che l’amore coniuga: il presente smisurato.

Il campo di Caino, nel cuore del poeta, è trasformato in terra promessa: il ricordo di Fanni era via e garanzia, nella vita mortale, della vita eterna. Ri-cordare non significa forse mettere sempre di nuovo nel cuore? Così in Lettera alla sposa le confida: «Non so più quando potrò vederti di nuovo,/tu che eri certa e pesante come il salmo,/e bella come la luce, bella come l’ombra,/colei che ritroverei anche da cieco e muto,/ti interrogo geloso, mi ami?/Un giorno alla fine della mia giovinezza sarai la mia sposa, spero di nuovo —/torno in me,/so che lo sei. Sposa e amica —/solo sei lontana. Oltre tre confini selvaggi./Sono prigioniero. Ho ponderato tutto quello in cui spero,/ciò nonostante so che ti ritroverò,/ho percorso per te la lunghezza interminabile dell’anima —,/e strade di paesi; se serve con una magia attraverserò/braci di porpora, fiamme che precipitano, ma tornerò». «Percorrere la lunghezza interminabile dell’anima per tornare a casa» la sceglierei come definizione di «amare» in un dizionario di verità che solo la poesia, per via di metafora, riesce ad afferrare.

Mik aveva camminato per 30 chilometri nella notte e nel ghiaccio, il gelo gli aveva fiaccato le membra e i polmoni, il resto lo aveva fatto un militare ubriaco picchiandolo mentre lo scherniva come lo «scribacchino». Gli avevano sparato qualche settimana dopo con un colpo alla nuca e lo avevano gettato in quella fossa, ma lui non aveva mai rinunciato fino all’ultimo a trasformare l’orrore in bellezza, la terra in cielo, il sangue in parola. Il Taccuino di Bor è infatti l’unica raccolta di poesie sopravvissuta all’Olocausto ed è il dialogo tra un marito e una moglie. La vita tessuta dall’amore non è di una stoffa solo umana, è fatta di fili e trame che appartengono alla Memoria di Dio, dove niente di ciò che è fatto e detto per amore può essere rovinato o andar perduto, ma rimane. In qualche modo Dio aveva ascoltato la preghiera che Fanni ripeteva da quando avevano catturato Mik: prendi me al suo posto. Ma si sa Dio esaudisce le preghiere a modo suo, e così Fanni visse fino al 2014, fedele a Mik, a 102 anni continuava, in modo discreto e gentile, a fare memoria della sua poesia e del loro amore: il destino aggiunse agli anni di lei quelli di lui, per pareggiare i conti con l’orrore e batterlo ai punti, già su questa terra. Tutto ciò che in questa storia sembra assurdo è la normalità delle vere storie d’amore, che della statistica schiacciante del disamore se ne fregano e ci ricordano — di questo facciamo memoria — che l’amore che vince la morte non è un’illusione, ma l’unica realtà in mezzo a un mondo di illusioni.

Questa storia, che ho inserito tra quelle delle mie donne di Ogni storia è una storia d’amore, è diventata il mio personale manifesto per la Giornata della Memoria, celebrata ieri. Non una memoria da museo, fredda e archeologica, foriera al massimo di qualche effimera emozione auto-edificante, ma la memoria che conserva i momenti in cui facciamo esperienza della vita vera, la vita che non si rovina e non può andare perduta. Mik e Fifi si fecero l’uno memoria dell’altro, perché ci fosse sulla terra almeno uno che avrebbe fatto da custode e testimone alla bellezza della vita dell’altro. Infatti frugando nell’altra tasca del cappotto Fifi trovò l’altra parte del testamento di Mik: due fotografie. La ritraevano entrambe. Una era lei da bambina, l’altra la ritraeva donna e sorridente nei suoi occhi senza ombre: i poeti sanno che amare una donna è amare contemporaneamente la bambina che è stata e la donna che li ha fatti innamorare.

Il letto da rifare oggi è ricordare, mettere nel cuore di nuovo, chi amiamo: scrivere su un taccuino delle parole al proprio amato o alla propria amata, per ricordarsi che c’è una vita da fare insieme, l’unica capace di fronteggiare la violenza, i fallimenti e la noia, perché ha la stoffa della Memoria di Dio; recuperare una foto del bambino/a che siamo chiamati a proteggere in chi amiamo, e una dell’uomo o della donna che in origine ci hanno fatto innamorare. Pensare che siano sogni infantili o illusioni, significa aver rinunciato a ricordare il futuro e a custodire il nostro destino: essere per sempre. Storie come quelle di Mik e Fifi mostrano quanto è terribile la vita e che l’amore non è un incantesimo lanciato per coprirne l’orrore, ma la manifestazione e costruzione di uno spazio e di un tempo in cui dolore e morte sono fronteggiati e divinamente superati, come scrive Mik poco prima d’essere ucciso: «Vieni a proclamare con me che già quell’ora s’approssima/che sta nascendo il regno./“E qual è il disegno del Signore?”— Domandai./Ecco è questo regno». È in questo regno senza più lacrime che tutti desideriamo abitare.

Fonte: Corriere.it

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