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NEL NOME DEI PADRI – · Springsteen a Broadway ·

È da solo sul palcoscenico da quasi due ore e mezza, a parte una breve parentesi con la moglie Patti. Accompagnandosi con una chitarra acustica o un pianoforte, ha già cantato quindici canzoni tra le più più significative del suo vasto repertorio. Tra un brano e l’altro si è raccontato senza veli, spiazzante, autoironico. Ma nessuno tra i quasi mille spettatori riusciti a conquistare un posto in teatro probabilmente si aspetta quello che sta per accadere: Bruce Springsteen, The Boss, uno dei rocker più famosi e acclamati al mondo, si mette a pregare: «Padre nostro, che sei nei cieli…». Non sappiamo quale sia la reazione del pubblico a questa inattesa performance. Il documentario in onda sul canale televisivo Netflix non ce lo mostra. Possiamo immaginarlo: non si era mai vista e sentita una cosa simile; non in un concerto, per quanto particolare.

 

Ma chi conosce Springsteen non si sarà sorpreso più di tanto. E in ogni caso il “percorso” proposto durante lo spettacolo ha fatto intendere agli spettatori più ignari qualcosa sul senso religioso del cantautore. Prendendo spunto dalla recente autobiografia Born To Run, The Boss ha già raccontato su quel palco la sua giovinezza a Randolph street, nella cittadina di Frehold, New Jersey, con la sorella Virginia, e i genitori Adele e il padre Douglas, di origini italiane lei, irlandesi lui. Ed è già un indizio importante. «Vivevamo a pochi passi dalla chiesa, dalla canonica, dal convento delle suore e dalla scuola St. Rose of Lima: tutto questo — racconta — a un tiro di schioppo da casa mia. Sono cresciuto letteralmente circondato da Dio». E dai numerosi parenti, aggiunge, con i quali partecipava, richiamato dal suono delle campane, a tutte le celebrazioni, matrimoni, funerali: «Vivevamo all’ombra del campanile, benedetti dalla pietà divina, tutti quanti».

Un racconto intimo quello dell’artista; ci si sente come ospiti nel suo salotto. E invece siamo al Walter Kerr Theatre, sulla 48ª strada di New York: un anno di repliche, oltre duecento, cinque giorni alla settimana, sempre tutto esaurito. Lo spettacolo ha un titolo semplice, Springsteen on Broadway, come il doppio disco e il documentario che testimoniano la straordinaria performance. Che non è né un concerto e né uno spettacolo teatrale: è semplicemente la storia di una vita narrata e cantata nei suoi momenti salienti. A partire dalla voglia di fuggire da quella “trappola mortale” che è il New Jersey, come testimoniano i testi di quasi tutti i brani degli inizi.

Inizi certo non facili, alla ricerca di un’identità, di un sound personale, di platee adeguate a un talento che cerca disperatamente un modo per esplodere. Una passione, quella per la musica e per il rock in particolare, nata davanti alla tv la sera in cui Elvis Presley si esibì all’Ed Sullivan Show. «Il genio del rock and roll era uscito dalla lampada — racconta — e io avevo sentito l’odore del sangue».

È sincero Springsteen, che alla soglia dei settant’anni racconta della sua depressione, dei drammi della sua vita, ma è anche capace di scherzare su se stesso. Come quando ammette di aver scritto per una vita intera testi sulla classe operaia senza aver mai messo piede in una fabbrica. O quando confessa che l’autore di canzoni come Racing In The Street e Thunder Road all’epoca non aveva neppure la patente. E oggi, precisa, l’uomo nato per correre lontano dal “Jerseystan”, come lo definisce, vive a soli dieci minuti dal luogo in cui è cresciuto.

Le canzoni seguono le parole, e ogni canzone getta luce su un pezzo di vita, un aneddoto. Si parte da Growin’ Up seguita da altri successi, The Promise Land, Tenth Avenue Freeze-out, The Rising, fino a Born To Run. Non manca Born In The Usa, una sorta di inno, quasi irriconoscibile dalla versione originale. E parla dell’America il Boss, della speranza in un futuro non ancora scritto, ma anche del presente, di una società che si chiude, che rifiuta, con un chiaro riferimento ai migranti: «Pensavamo che ci fossimo lasciati alle spalle certe cose e invece dobbiamo ancora combattere per l’America che vogliamo».

Springsteen ricorda gli amici, quelli che non ci sono più, i compagni della sua avventura nel rock. Ricorda in particolare Clarence “Big Man” Clemons, il sassofonista storico della sua E street band.

Ma ha un pensiero anche per i giovani andati in Vietnam negli anni Settanta. Lui fu scartato alla visita di leva. «Ancora mi chiedo chi è partito al posto mio — riflette, lo sguardo crucciato — perché qualcuno è partito al posto mio». Forse, riflette, uno dei due giovani fratelli suoi amici, anch’essi rocker, i cui nomi andò a cercare a Washington sul memoriale dei caduti. E poi ricorda il successivo incontro con Ron Kovic, autore di Nato il 4 luglio, e della toccante visita in un centro per reduci cui venne invitato proprio da Kovic.

Parla della famiglia Springsteen. Della mamma, della sua grande forza, della sua vitalità, della sua passione per il ballo. E soprattutto del padre, del loro rapporto conflittuale, fatto di fughe e di difficili riconciliazioni, narrato in tante canzoni. «Mio padre era il mio idolo, ma anche il mio peggior nemico», confida. Eppure è proprio al padre che dedica la parte più intensa del suo racconto. Lui e Patti Scialfa sono in attesa del primo figlio quando ricevono una visita a sorpresa di Douglas nello loro casa di Los Angeles. Racconta Bruce: «Aveva guidato per ottocento chilometri, senza preavviso, per bussare alla mia porta. È fatto così. Mio padre, che non è mai stato di tante parole, farfugliò un “sei stato davvero buono con noi”. E io annuii, dandogli ragione. E poi lui disse: “Ma io non lo sono stato con te”. E la stanza si fermò. Con mia grande sorpresa l’inammissibile veniva ammesso. Se non lo avessi conosciuto bene, avrei giurato che si stesse scusando, in qualche modo. Ed era così».

Si commuove Springsteen, che continua: «Negli ultimi giorni, prima di diventare padre, mio padre mi venne a trovare per dirmi dei suoi errori. E per avvertirmi di non farli con i miei figli. Siamo fantasmi o antenati nelle vite dei nostri figli. Mio padre quel giorno si stava proponendo nel ruolo di antenato nella mia vita dopo essere stato un fantasma per tanto tempo. Voleva che scrivessi una nuova fine al nostro rapporto — aggiunge, non riuscendo a trattenere le lacrime — e voleva che fossi pronto per il nuovo inizio che stavo per affrontare. È stato il momento più bello della mia vita con mio padre. Ed è tutto ciò che serviva».

È la riconciliazione tanto attesa, che lascia un segno indelebile, che resta oltre la durezza e le difficoltà dell’esistenza. Come dimostra un’altra inattesa confidenza: «Viviamo tra fantasmi che cercano di raggiungerci da quel mondo di ombre. Sono con noi per tutto il cammino. Mio padre è con me ogni giorno. Mi manca. E se potessi esprimere un desiderio, vorrei che fosse qui per poter vedere questo. Ma lo vado a trovare ogni sera, un po’. È come una preghiera», racconta Springsteen, che aggiunge: «Forse tutto quello che cerco quando torno la sera a casa è sentirmi in contatto con i vecchi spiriti, stare in loro presenza, sentire le loro mani su di me ancora una volta».

Poi l’ultimo tuffo nel passato, quando un tardo pomeriggio, in macchina, da solo, torna nel suo vecchio quartiere e siede di nuovo all’ombra del campanile. «Sapete cosa si dice dei cattolici? Che non se ne esce. Una volta che ti hanno preso, ti hanno preso. I bastardi ti hanno preso quando hanno potuto. E hanno lavorato bene e sodo. Perché le parole di una strana ma molto familiare benedizione mi tornarono in mente quella sera. E voglio che sappiate che erano le parole che da bambino sussurravo, canticchiavo, recitavo, mi annoiavo a morte, in un mormorio infinito prima delle lezioni. Tutti i giorni, la giacca verde, la cravatta verde, i pantaloni verdi, i calzini verdi, di tutti i discepoli riluttanti del St. Rose. Ma per qualche remota ragione, mentre sedevo nella mia strada, ancora una volta circondato da Dio, mi vennero in mente e suonavano in modo diverso. Erano: Padre nostro, che sei nei cieli…».

Fonte: Gaetano Vallini | osservatoreromano.va

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