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I nostri ragazzi in fuga dalla parola

Hikikomori, bambini “momentaneamente silenziosi”, giovani invisibili. In un mondo sopraffatto dal rumore, un nuovo, inquietante, silenzio si fa strada.

Piegano la testa, curvano le spalle. Abbassano lo sguardo o lo spostano altrove, su un punto lontano. E, immobili, braccia rigide, scelgono ostinatamente, volontariamente, di non parlare. “Mutismo selettivo”: lo chiama così la medicina più attenta a indagare uno dei paradossi della nostra epoca: l’afasia. Il silenzio, in un mondo sopraffatto dal rumore.

«Alle volte mi sembra che un’epidemia pestilenziale abbia colpito l’umanità nella facoltà che più la caratterizza, cioè l’uso della parola, una peste del linguaggio che si manifesta come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze». Così scriveva Italo Calvino nelle “Lezioni americane”, nel capitolo sull’Esattezza. E di epidemia oggi torna a parlare lo psichiatra Manfred Spitzer, nel suo ultimo saggio “Connessi e isolati” (Corbaccio): una pandemia di solitudine, capace di condurci a molte malattie. E con una manifestazione evidente: la tendenza all’isolamento, l’esclusione degli altri.

Soppressa, aggirata, imbavagliata: mai come oggi la parola è sotto assedio. Sovrascritta da un costante chiasso di fondo. Svuotata di senso da una comunicazione continua, e a tutti i costi: il traffico delle città, il chiacchiericcio ovunque, il frastuono delle case, le voci alzate per farsi più sentire, l’illusione di un’interazione ininterrotta sui social network. Intanto, un silenzio inquietante si fa strada. Soprattutto tra i più giovani.

«Ho pensato che potevo fingermi sordomuto. Così mi risparmiavo tutte le chiacchiere stupide e inutili. Se qualcuno voleva dirmi qualcosa, doveva scriverlo su un foglio e piazzarmelo davanti. Dopo un po’ si sarebbero stancati, e io avrei chiuso con le chiacchiere per il resto dei miei giorni». La tentazione de “Il giovane Holden” di J. D. Salinger è la stessa: ragazzi segregati nelle camere. “Hikikomori”, con una parola giapponese che li descrive già dagli anni 80: “in disparte”.

«I genitori sono disorientati. Gli insegnanti non sanno come comportarsi. Ci si sente impotenti», conferma Marco Giordano, padre di un ragazzo che a 16 anni è precipitato nell’isolamento, e impegnato nell’associazione Hikikomori Italia, che stima in 100 mila i giovani tra i 13 e i 30 anni, per lo più maschi, arroccati nel loro silenzio. Perché qui non si parla di usi culturali o politici o religiosi del silenzio: bene prezioso di cui tesse l’elogio l’antropologo David Le Breton in “Sul silenzio” (RaffaelloCortina Editore).  E neppure di linguaggio “degradato”, ristretto da un vivere in un infinito presente al quale bastano davvero poche parole, come ragionano Giuseppe De Rita e Antonio Galdo in “Prigionieri del presente” (Einaudi): «Una lingua deformata e abbreviata, un tam tam di messaggi, emozioni e propaganda, per sua natura sgrammaticata, tipico del comunicare come esercizio compulsivo». Ma di un ritiro simbolico dal mondo. Di una reclusione volontaria in una dimensione di silenzio. Effetto collaterale, va detto, di una società ipermedializzata.

I cinesi l’hanno battezzata tribù dei “dĩ tóu zú”, della gente con la testa china. I sociologi americani parlano di “smombie”, smartphone zombie, assorbiti dai telefonini al punto da non accorgersi di ciò che accade intorno a loro. Meno suggestivo, ma più allarmante, Lamberto Maffei, ex presidente dell’Accademia nazionale dei Lincei e professore di Neurobiologia alla Normale di Pisa in “Elogio della parola” (il Mulino): «Mi preme riflettere sulla fuga dalla conversazione, che molte statistiche descrivono come dilagante e non solo nei giovani. Cosa accadrà quando i giovani smartphonisti saranno genitori, e non ci sarà più il buffer, la modulazione mitigante, delle generazioni. Quali modificazioni potranno avvenire nei centri del linguaggio parlato dell’emisfero sinistro del cervello?». Perché una cosa è chiara, solo a guardare adolescenti e preadolescenti dalla testa china: pur immersi in una rete di comunicazione, dalla parola a voce alta rifuggono in massa. Meno impegnativo, meno pericoloso – perché l’interazione è sempre imprevedibile – comunicare via WhatsApp, meglio ancora con messaggi vocali.

«Prima che si imponessero le moderne tecniche di comunicazione le persone conversavano in famiglia durante i pasti, al lavoro, nei bar, sui mezzi pubblici», osserva Le Breton: «Oggi, cellulare alla mano, seduto a un tavolo o camminando con altri, spesso ognuno legge le proprie email o invia sms, scambiando di tanto in tanto una parola per ricordare agli altri che, nonostante tutto, esistono». Più che conversazione, connessione.
«Le famiglie italiane sono alle prese con la formidabile potenza erosiva delle fruizioni individualizzate degli smartphone collegati al web, che azzerano i momenti di aggregazione collettiva tradizionalmente al cuore della relazionalità intrafamiliare di ogni giorno», ribadisce il 1° Rapporto Auditel-Censis, “Convivere, relazioni e stili di vita delle famiglie italiane”, appena pubblicato. E ancora: «Lo smartphone incarna l’erosione individualistica delle relazioni familiari, perché radica la fruizione individualistica dei contenuti, entrando nella quotidianità più intima». Da un’indagine del Censis è possibile stimare in 28 milioni gli utilizzatori notturni di smartphone. E giù altre cifre. Se nelle case degli italiani ci sono 5 milioni e 700 mila pc fissi, 14 milioni di portatili e 7 milioni e 400 mila tablet, precoce è il rapporto dei minori con i telefoni connessi al web: il 54,6 per cento dei ragazzi tra i 4 e i 17 anni dispone del cellulare o smartphone, il 18,8 per cento usa il pc fisso, il 41,5 per cento il portatile, il 36 il tablet. In forte aumento anche la fruizione individualizzata dei contenuti tv tramite smartphone: 2,8 milioni di italiani guardano RaiPlay, 2,3 SkyGo e 3,7 milioni Netflix.

«La velocità, l’ansia degli adulti, la natura multitasking con cui ci muoviamo negli spazi relazionali facendo mille cose in contemporanea sta indebolendo le nostre competenze comunicazionali e prosociali», avverte lo psicoterapeuta Alberto Pellai. «C’è un evidente collasso della comunicazione verbale», conferma la psicologa Emanuela Iacchia del comitato scientifico dell’Aimuse, l’Associazione italiana mutismo selettivo, che dal 2009 supporta le famiglie nel problema, e autrice, con Paola Ancarani, di “Momentaneamente silenziosi” (FrancoAngeli). «Sono sempre di più gli insegnanti e i genitori che si rivolgono a noi per segnalare questi atteggiamenti. I dati ufficiali dicono che un bambino su cento, sotto gli 8 anni, soffre di mutismo selettivo. Con una spiccata prevalenza di bambine. Ma ritengo che siano tanti di più perché nella maggior parte dei casi non si dà nome al fenomeno, e si fa persino fatica a individuarlo: i bambini a casa parlano tranquillamente, fuori appaiono solo molto timidi. A scuola, non è raro che il rifiuto di parlare sia scambiato per provocazione. In realtà, è un disturbo d’ansia vero e proprio».

Neppure di recente scoperta: già nell’Ottocento si diagnosticava una “afasia volontaria” a persone che non parlavano per espressa volontà di non farlo. Nel 1994 ha cominciato a circolare l’espressione “mutismo selettivo”. Non un silenzio assoluto, cioè, ma un blocco che emerge in certi contesti e in certe situazioni. La frase-spia: Suo figlio a scuola non parla. I bambini vorrebbero parlare, ma non ci riescono. Perché? Non c’è una sola causa, ma una molteplicità di fattori, che hanno a che fare con lo stile di vita della contemporaneità. «Nelle nostre case non c’è più il telefono. Viviamo a ritmi così veloci da non concederci scambi verbali anche casuali. Relazioni come chiedere aiuto per trovare una strada, ad esempio, sono sempre più ridotte. Guidati da cellulari e gps stiamo perdendo la cordialità delle relazioni. E sempre impegnati sul telefonino, non diamo un grande esempio di disponibilità ai ragazzi. Che perdono la capacità di mettersi in relazione e di sperimentare le loro emozioni. Oltre a questo aspetto c’è un uso continuo di gadget elettronici per tenere occupati i bambini. E incide l’ansia da prestazione alla quale sono sottoposti: li vogliamo tutti bravi, capaci di grandi cose. Questa pressione, questa autostima ridotta, generano, al contrario, chiusura: i ragazzi evitano di esporsi».

“Evitare” è il verbo chiave: di esprimersi, di mettersi in gioco. Una volta che il disturbo si è manifestato, i bambini eviteranno tutte le situazioni potenzialmente in grado di accentuarlo. Cercando di farsi invisibili. «Abbiamo esagerato», dice Iacch: «Pretendendo troppo, non abbiamo indicato ai nostri figli le strade della felicità». La bellezza della parola stessa.

Un film al cinema, e un bestseller in libreria, intanto, riportano la parola al centro dell’attenzione. “A voce alta – La forza della parola” del regista Stéphane De Freitas, vincitore del Premio del Pubblico al Torino Film Festival, questo dimostra: come la parola sia strada di riscatto ed emancipazione. C’è una gara di oratoria, “Eloquentia”, a Saint-Denis, periferia nord di Parigi: e la storia si sviluppa intorno alle lezioni per padroneggiare l’arte di parlare. Con l’esplosione di Internet i legami sociali si stanno sgretolando. Sempre più persone usano la rete per esprimere la loro rabbia, spiega il regista: Io volevo tornare a una vera forma di dialogo capace di ricreare legami sociali.

Sfrangiati e annientati quelli della comunità in cui è ambientata l’ultima distopia che fa discutere: “Vox” di Christina Dalcher (Casa editrice Nord). Protagonista la voce strozzata delle donne americane nella soffocante ipotesi che, per legge, alle donne sia vietato di pronunciare più di cento parole al giorno. Superato il limite, un braccialetto trasmette una violentissima scarica elettrica. In tempi di #MeToo, una provocazione sulla forza della parola femminile.

Patologia della modernità. Regressione antropologica. Il silenzio nella realtà cresce e crea barriere. «Come quelle tra nonni e nipoti, tra i quali enormi silenzi si frappongono ormai, come se i più anziani avessero perduto la consistenza che permette i rapporti personali», nota lo psichiatra Vittorino Andreoli, in un saggio durissimo sull’agonia della nostra civiltà: “Homo stupidus stupidus” (Rizzoli). E gli esperti  rivolgono ora l’attenzione ai bambini immigrati, o che hanno vissuto le guerre: alle tante fortezze in cui si ritirano, troncando ogni forma di comunicazione, tante piccole vittime.

Tutto è cominciato con un rapporto difficile con la scuola. Poi, la decisione di abbandonarla, racconta Marco Giordano: «Autostima devastata. Amicizie interrotte. La paura di uscire. La camera è diventata il suo rifugio. Ha cominciato a non curarsi più. Ha invertito la notte col giorno. Lentamente è scivolato nell’isolamento».

Eccolo il ritratto degli hikikomori, che si ritirano in stanza e vi rimangono per lunghi periodi, spesso anni. Connessi a Internet, certo. Ma sbaglia chi li confonde con i drogati del digitale: «In genere è una conseguenza», dice Giordano: «Questi ragazzi, chiudendosi, si difendono: giocano on line, vedono serie tv in modo compulsivo, leggono, imparano lingue straniere. Sono estranei a ciò che accade intorno, ma hanno grandi talenti. Piano piano, disertano tutte le situazioni conviviali, compresi i pasti. E se provi a forzare, a mettere dei limiti a Internet, reagiscono con violenza», nota, sulla base delle esperienze riferite agli psicologi di Hikikomori Italia (www.hikikomoritalia.it): «Non riconoscono il loro disagio: “Siete voi che avete bisogno di aiuto”, dicono. La società, che parla troppo invece di ascoltare e dare spazio alla diversità, deve affrontare questa forma cosciente di rifiuto: di pressioni, ipocrisie, velocità», aggiunge Giordano. I ragazzi, camaleonti che si adattano e si difendono come si può, lanciano la sfida.

«Stiamo mettendo in atto, nei confronti della rivoluzione digitale, ingannevoli vie di fuga», scrive lo psicoterapeuta Domenico Barrilà in “Superconnessi. Nostalgici della realtà in cerca di educatori” (Feltrinelli): «Perché non riusciamo a sopportare la chiara e semplice verità, ossia che non si tratta di un problema tecnologico ma educativo… Se i nostri figli possiedono il senso della propria natura sociale, e soprattutto se la vedono in azione nel comportamento dei genitori, aspetto che conta assai più delle parole, non dovremo preoccuparci troppo delle loro interazioni virtuali…Tocca a noi adulti uscire dal santuario delle lamentazioni e guardare in faccia la realtà. Cercando di fare ciò per cui li abbiamo messi al mondo, ossia amarli ed educarli».

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