Sopra La Notizia

Alessandro D’AVENIA – 37. Tic tac tic tac

«Il mio studio è una casetta di legno affacciata su un bosco. L’arredo è spartano: un minuscolo scrittoio comprato da un rigattiere trent’anni fa, una sedia, il letto di legno, una mensola per i libri, una vecchia sveglia a molla regalatami da un caro amico che, con il suo tic tac arcaico, riempie il silenzio della stanza». Così Susanna Tamaro descrive il suo scrittoio nel primo capitolo di Il tuo sguardo illumina il mondo: un meraviglioso dialogo in differita con l’amico poeta Pierluigi Cappello, morto prima che riuscissero a coronare il progetto di scrivere un libro insieme. Quando ho letto queste parole mi sono fermato e mi sono chiesto con apprensione: ma io riuscirei mai a sopportare quel continuo ticchettio? Forse perché oggi è diventato normale subire il tempo anziché abitarlo. Ho ripensato allora al racconto mitico in cui il dio Tempo, il titano Cronos, figlio di Urano (Cielo) e Gea (Terra), divora tutti i suoi figli appena nati, finché la moglie salva Zeus, dando in pasto al marito un masso avvolto in fasce. Cresciuto, Zeus costringerà il padre a vomitare i fratelli (Estia, Demetra, Era, Ades, Posidone), al fianco dei quali combatterà contro lui e gli altri Titani che, sconfitti, verranno rinchiusi agli inferi. Così gli dei dell’Olimpo conquistano la supremazia e inaugurano un tempo nuovo. Anche oggi, in qualche modo, il Tempo sembra divorare i figli che genera, fino a che non ci si stacca da lui e lo si combatte. Come?

La parola tempo viene probabilmente da una radice che indicava «tagliare», così come per analogia alcune misure di tempo vengono dal verbo latino «secare» (tagliare): secondo e secolo. Coerentemente le lancette (diminutivo di lancia) cominciarono a tagliare il silenzio per ricordarci che moriremo. Nella Genesi le lancette non erano però così cruente: «Dio disse: “Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra”. Dio fece la luce maggiore per regolare il giorno e la luce minore per regolare la notte, e le stelle. E Dio vide che era cosa buona». Nella cultura giudaico-cristiana lo scorrere del tempo è perciò il regolare trascorrere della luce sulle cose, non la violenta lotta del mito greco. In quest’ottica il tempo/luce potrebbe forse riconciliarci con l’incalzante tic tac delle lancette: se ogni rintocco sprigionasse luce, il tempo ci sarebbe meno nemico. La frattura tra luce e tempo è una ferita aperta nel corpo dell’uomo di oggi. Il consumismo frantuma l’esperienza del tempo come alternanza del giorno e della notte: le luci artificiali divorano il sonno. I primi a pagarne le conseguenze sono i ragazzi (da quando esistono gli smartphone, dormono in media un’ora in meno con conseguenze negative sulla loro salute psicofisica). Il sonno è vita, non un carica-batterie, né, ancora peggio, una malattia, a cui presto la chimica risponderà diminuendone le ore, per averne di più per «fare» e «consumare». Dopare il tempo è un’illusione tossica.

Ogni volta che l’uomo si allontana dal ticchettare di luce e buio, Cronos torna a divorare i suoi figli. Espressioni come «ottimizzare» ci illudono di esser noi a misurare il tempo e non lui a misurare noi, così ci abbandoniamo all’umanissimo miraggio di «guadagnarlo» accelerando o aumentando le attività. Definire il tempo in termini di «denaro», «spreco», «perdita» tradisce il fatto che oggi pensiamo di fermarlo con la «produzione». In realtà ciò che è sprecato e perso è l’io: chi sa chi è e che senso ha la sua vita, trova il suo tempo, anche se ne sperimenta la scarsezza. Non sente la necessità di doverlo aumentare e accelerare, ma lo accoglie grazie all’esperienza della «durata». Il tempo, alternanza di giorno/notte, è semplicemente vita, spazio riservato al corpo per accettare la sua finitezza. L’angoscia del tempo accelerato è la percezione epidermica di una ferita più profonda: è la vita ad essere disorientata. Viviamo in modo frenetico non perché ci manca tempo, ma perché ci manca senso: i clacson suonano allo scattare del verde, il passo veloce aggredisce la strada, come se da quei secondi dipendesse la salvezza. Senza esperienza della durata, la vita è percepita come continua perdita da limitare. La destrutturazione del senso del tempo deriva dall’odierna mancanza di rispetto dei limiti del corpo, che risponde con sfinimento, emicranie, disordini alimentari, ansia. Dando «corpo al corpo» restituiremo «tempo al tempo», espressione tanto lapalissiana quanto disattesa: rifiutando il corpo rifiutiamo il tempo. L’unico modo per non essere «tagliati» dalle lancette è sostare, che non è in-trattenersi, passare il tempo, ma in-dugiare, fare esperienza della durata: abitare il tempo.

«Abitare» è la forma frequentativa del latino «habere» (avere): chi abita «continua ad avere», è padrone, non servo. Non ha tempo chi non lo abita. Ma come si può indugiare in un mondo frenetico? Non è il solito elogio della vita lenta o agreste, ricetta tanto decantata quando insufficiente se si rimane nella visione che contrappone tempo libero e lavoro. Il tempo acquisisce valore, non in base a ciò che facciamo, ma se siamo interiormente «servi» o «liberi» nel fare le cose. Per me preparare e offrire una lezione su Dante diventa tempo libero: faccio esperienza della durata, quelle ore aprono il tempo, lo vincono perché sono vive e piene di senso. L’«istante» diventa «stare in», indugiare e soggiornare, luminosa durata, e non ripetizione da cui fuggire. Qualsiasi cosa facciamo richiede tempo, e quel tempo è libero o servo in base al senso che gli diamo. Purtroppo oggi il lavoro anziché mezzo per ottemperare alle necessità della vita, servire gli altri e, nei casi più fortunati, migliorarsi, è diventato il fine stesso della vita o, a volte, persino condanna. Si vive per lavorare, anziché il contrario, come dimostrano orari di lavoro che divorano il giorno, e ci sfiniscono. Già i Romani, sulla scorta del mondo greco, opponevano nettamente ozio (otium) e lavoro (neg-otium), il secondo era la faticosa necessità per ottenere il primo: l’uomo libero è quello che può non lavorare. Il cristianesimo invece, incentrato sull’Incarnazione di Dio, risolve questa drammatica opposizione: l’Uomo-Dio fino a 30 anni è stato un falegname e questi anni non sono meno importanti dei tre da maestro e guaritore. Il lavoro nella cultura cristiana è mezzo di salvezza, partecipazione alla creatività divina, l’ozio lo si trova proprio dentro il «negozio»: i cristiani che lavorano poco e male sono poco credenti e poco credibili. Ma il tempo diventa durata solo quando, mentre si fa ciò che si deve, si trova l’occasione per trascendersi, cioè per amare. Non si tratta quindi di fare meno, ma di fare avendo in mente un senso e un ordine. Il tempo che libera genera stanchezza, non sfinimento, perché il corpo che indugia necessita ristoro, non intrattenimento. Il tempo lo si vince «contemplando», cioè quando si ripara la separazione di corpo e spirito. L’azione senza contemplazione diventa schiavitù: non occupa, pre-occupa. Con-templare ha la stessa radice di tempo: significava osservare un ritaglio di cielo, da cui la parola «tempio» (recinto sacro). Se il tempo non è un limite che apre sull’infinito, ci dilania: la trasformazione della domenica, da giorno di relazioni a giorno di acquisti, è una vera e propria vivi-sezione. Luce e buio sono lancette per amare.

Si guadagna tempo solo amando, perché amare rende il tempo «durata». Accade quando il (ri-)taglio di tempo che ci è assegnato, decidiamo «liberamente» di impegnarlo per qualcosa o qualcuno che ci fa uscire fuori da noi stessi (il tempo libero è quello «liberato per» non semplicemente «da»). Solo quando ci diamo anima e corpo, lo scorrere del tempo rallenta, anche se siamo impegnatissimi, perché a segnarlo non è il passo misurabile dagli orologi: il susseguirsi orizzontale dei secondi. L’amore apre la dimensione verticale del tempo, non misurabile, perché è durata: un secondo si dilata e diventa un secolo. Verticale è il tempo dell’artista impegnato nell’opera, verticale è il tempo della madre in attesa, verticale è il tempo delle relazioni vere, verticale è il tempo della preghiera, verticale è il tempo del lavoro appassionato, verticale è il tempo delle foglie più belle prima di cadere, verticale è il tempo delle carezze, verticale è il tempo del perdono, verticale è il tempo dato a un figlio o a un alunno anziché al cellulareIl tempo verticale non divora, ma vola: indugiando se ne perde il senso dello scorrere proprio perché se ne vive profondamente il senso dello scorrere, anima e corpo uniti. Diventa nostro, non ci può essere più strappato.

Il letto da rifare oggi è provare a ri-abitare il tempo: segnate su un foglio come avete passato ogni mezz’ora di una giornata, fatelo ogni sera per una settimana. Fatevi aiutare dall’opzione «tempo di utilizzo» dello smartphone, vi dirà che state con lui circa un giorno su sette: il tempo c’è, siamo noi a scegliere per chi è. Il tempo è taglio che, per chi sa abitarlo, diventa tempio, invece resta tomba, pancia di Cronos, per chi lo subisce. Se diamo tempo, cioè senso, al tempo, ci stupiremo di quanta luce può sprigionare ogni ora, il tic tac segnerà il ritmo di ciò che dà vita non di ciò che la toglie, come accade alla scrittrice nel suo studio, perché il tempo, per chi lo abita, cioè per chi ama, non passa: dura.

Fonte: Corriere.it

Newsletter

Ogni giorno riceverai i nuovi articoli del nostro sito comodamente sulla tua posta elettronica.

Contatti

Sopra la Notizia

Tele Liguria Sud

Piazzale Giovanni XXIII
19121 La Spezia
info@sopralanotizia.it

Powered by


EL Informatica & Multimedia