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Se sul suicidio assistito la Corte decide di non decidere

«Nella camera di consiglio di oggi, la Corte costituzionale ha rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni costituzionalmente meritevoli di protezione e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti. Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’articolo 580 codice penale all’udienza del 24 settembre 2019»: così si legge nel comunicato rilasciato il 24 ottobre 2018 dall’Ufficio Stampa della Corte Costituzionale.

L’ordinanza è ancora tutta da leggere e da studiare, ma da questo scarno compendio del suo contenuto si possono comunque effettuare alcune considerazioni.

In primo luogo: emerge chiaramente come la Corte non abbia accolto la richiesta di dichiarare la illegittimità costituzionale dell’articolo 580 del Codice Penale che proibisce e sanziona l’assistenza al suicidio. Evidentemente, e implicitamente, e almeno per ora, la norma in questione è costituzionalmente legittima e non si può di certo eliminarla come se nulla fosse.

In secondo luogo: senza dubbio, però, rimettere la vicenda alla decisione del legislatore – se per un verso è cosa buona e giusta per evitare di indulgere in modo eccessivo in direzione della creatività della giurisprudenza che nei temi eticamente sensibili degli ultimi decenni si è spesso sostituita al legislatore discostandosi, all’un tempo, dal principio di separazione dei poteri, dal sentire comune, dai valori comunemente accettati e dai principi generali del diritto in virtù di un progressismo giurisdizionale dai tanto ambiziosi e rampanti quanto ideologici obiettivi –, per altro verso non può che destare preoccupazione dato che la legislazione sul punto è già esistente, introducendosi così il terzo rilievo che per ora si può muovere – anche se “ad occhi chiusi” – alla decisione della Consulta.

In terzo luogo: posta la premessa, infatti, ritenere che vi sia una vacatio legis in tema di fine vita appare quanto meno eccessivo in considerazione della fitta griglia di norme che proprio sul punto già esistono. L’articolo 580 del Codice Penale, infatti, è soltanto una delle norme volte a regolare il fine vita, esistendo, una intera costellazione di discipline orbitanti intorno a tale questione, come per esempio l’articolo 5 del Codice Civile che impedisce gli atti di disposizione del proprio corpo, l’articolo 579 del Codice Penale che vieta e sanziona l’omicidio del consenziente, la recente legge 219/2017 in tema di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento. Da questa chiosa della Corte Costituzionale si può intuire come, probabilmente, la Corte ritenga meritoriamente – ma soltanto da un punto di vista di metodo di diritto, e non già di merito – che spetti al legislatore valutare “politicamente” se siano maturi i tempi per modificare la legislazione italiana in senso pro-eutanasico; tuttavia, una cosa è demandare al legislatore una tale indagine per una eventuale emendatio juris, altra, invece, è ritenere che l’ordinamento sia carente su un punto sul quale non lo è.

Al di là di queste supposizioni, in attesa di leggere il testo della decisione della Consulta e di osservare le mosse del legislatore esortato in questa direzione, non si può fare a meno di ricordare, però, che un diritto di morire non è ipotizzabile come dimostra, tra i tanti esempi possibili, la corposa raccolta di studi sul tema pubblicata proprio da qualche giorno, ad opera dei giuristi del Centro Studi Livatino, sulla rivista “L-Jus”.

Come il diritto di morire in sé considerato non è configurabile, infine, neanche il diritto di assistenza al suicidio è possibile teorizzare, in quanto rappresenta l’avvio di quel pendio scivoloso che porterebbe non solo alla legalizzazione dell’eutanasia volontaria, ma anche di quella involontaria con specioso sacrificio dei diritti fondamentali dei più deboli, come ha avuto modo di precisare più di vent’anni or sono, con una prudenza e una sapienza giuridica profetiche e oggi, purtroppo, poco diffuse soprattutto tra il personale togato italiano e straniero, il Presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti William Rehnquist per il quale, nel caso “Washington v. Glucksberg”, «il divieto di suicidio assistito può essere ragionevolmente correlato agli interessi dello Stato. Questi interessi includono il divieto di omicidio volontario e di preservazione della vita umana; prevenire il grave problema di sanità pubblica del suicidio, soprattutto tra i giovani, tra gli anziani e tra quelli affetti da dolore non trattato o da depressione o da altri disturbi mentali; proteggere l’integrità e l’etica della professione medica e mantenere il ruolo dei medici come coloro che hanno cura dei loro pazienti; proteggere i poveri, gli anziani, i disabili, i malati terminali e le persone di altri gruppi vulnerabili a causa dell’indifferenza, dei pregiudizi e delle pressioni psicologiche e finanziarie per cui si intende porre fine alla loro vita; evitare un possibile slittamento verso l’eutanasia volontaria e forse anche verso quella involontaria».

 

Fonte: Antonio Sanfrancesco | uccronline.it

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