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Mohammed, “aborto compassionevole”, e Mano, scampato ai protocolli belgi

 

Le vicende parallele e diverse di due bambini che si sono ostinati a nascere. Due storie drammatiche (e istruttive)

Lo scorso febbraio Sofia Khan, 35 anni di Bolton, nel Lancashire, raggiunge il St. Mary’s Hospital di Manchester. Fino a pochi giorni prima era al settimo cielo, lei e il marito Shakeel, già genitori di Mustafa, avevano scoperto di aspettare un altro bambino. Ma poi era accaduto qualcosa: niente da fare, avevano detto i medici con l’ecografia della ventesima settimana in mano, il piccolo è affetto da spina bifida, ed è un caso molto grave. Anche sperare che un intervento chirurgico possa aiutarlo è fuori discussione in base agli accertamenti successivi: per i medici è improbabile che il bambino possa sopravvivere, abortire è sicuramente la scelta più sensata.

GRAVEMENTE HANDICAPPATO

Tra mille dubbi e ripensamenti i genitori si rassegnano e a 25 settimane di gestazione Sofia, sdraiata su un lettino del St. Mary, inizia la procedura per l’aborto concessa dal Nhs in casi straordinari come quelli in cui è a rischio la vita della madre o ci sono problemi con lo sviluppo del bambino che lo renderanno “gravemente handicappato”.

IL PIANTO DI MOHAMMED DOPO L’ABORTO

Le viene iniettato in pancia un medicinale per fermare il battito cardiaco fetale, il cuore non batte più, le viene detto poco dopo, tutto è andato a buon fine. Sofia viene dunque trasferita nell’ospedale locale di Bolton per dare alla luce il feto morto. Mentre aspetta Sofia sente però il bambino scalciare, crede di essere ammattita e chiede insistentemente alle ostetriche di attaccarla al monitor. Le spiegano che è suggestionata, che non c’è alcun bisogno di fare verifiche. Dieci ore dopo Sofia partorisce, pensa di impazzire sentendo il figlio piangere, ma poi vede l’ostetrica correre in corridoio a chiedere aiuto: il piccolo sta davvero urlando, il piccolo è vivo.

COSA FACCIAMO?

«Cosa vuoi che ne facciamo?», le chiedono le infermiere mentre lei lo stringe tra le braccia. E lei non lo sa, sa solo che è un combattente, che ha un buco enorme nella schiena e che è vivo. Una vita da un’ora, quella di Mohammed Rehman: così lo hanno chiamato i suoi genitori, e con questo nome viene celebrato il funerale e data sepoltura al piccolo.

L’INTERRUZIONE “COMPASSIONEVOLE” DI GRAVIDANZA

Nel rapporto conclusivo dell’inchiesta sulla sua morte il medico legale Simon Nelson afferma che Mohammed è deceduto per «cause naturali dovute all’estrema prematurità causata dall’interruzione compassionevole della gravidanza, con una causa secondaria di malformazioni congenite». Nonostante l’accaduto i medici hanno lodato la decisione “corretta” e “coraggiosa” dei genitori di interrompere la gravidanza.

MANO, 710 GRAMMI

Qualche mese dopo questi eventi, lo scorso giugno, Kim, una giovane belga, incinta di 23 settimane e sei giorni si trova col marito Kenneth in Italia. La data presunta del parto del piccolo Mano (questo il nome scelto per il loro primo figlio) è ancora lontana e la giovane coppia, sposata da tre anni, ha deciso di trascorrere qualche giorno a Roma. Ma le cose vanno diversamente: il bimbo decide di nascere proprio a Roma, non ha nemmeno 24 settimane, pesa solo 710 grammi, viene subito assistito e sottoposto a terapie intensive dai medici dell’Umberto I dove Kim ha appena partorito.

LE CONDIZIONI DEL PICCOLO

Come tutti i neonati estremamente pretermine, con peso inferiore ai 1.000 grammi, che non hanno completato lo sviluppo degli organi, Mano può andare incontro a malattie mortali, gravi complicanze neurologiche: di tutte queste cose vengono informati i genitori dai loro medici curanti in Belgio.

IN BELGIO NON LI ASSISTONO

La coppia chiede pertanto ai medici dell’Umberto I di non assistere Mano, perché nel loro paese, spiegano, i neonati sotto le 25-26 settimane, non vengono curati, ma ricevono solo cure palliative e un accompagnamento alla morte. Tuttavia i medici del Policlinico romano, che nel solo 2017 hanno assistito oltre 500 neonati pretermine e sanno che l’inizio delle cure o della sospensione dell’assistenza intensiva è un argomento complesso e difficilmente inquadrabile in regole predeterminate, spiegano ai due ragazzi che all’approccio statistico (che definisce limite di peso e di età al di sotto dei quali non viene praticata l’assistenza intensiva, col rischio di lasciar morire bimbi che avrebbero potuto avere una vita esente da conseguenze o di indurre danni permanenti in neonati che pur non rianimati riescono a sopravvivere) gli italiani preferiscono quello individualizzato, basato sulle condizioni cliniche e la storia del singolo paziente.

IL RITORNO IN BELGIO

Mano ha sviluppato una serie di patologie molto impegnative, insufficienza respiratoria, infezioni ma la situazione cerebrale è sempre stata nella norma. Sono stati messi in atto tutti i più avanzati interventi terapeutici disponibili, i due ragazzi non sono mai stati lasciati soli. Tre mesi dopo la sua nascita turbolenta, Mano è pronto per essere dimesso, pronto per ritornare in Belgio. Dove se fosse nato, non sarebbe sopravvissuto.
Perché accade anche questo nei paesi civili dove augurare la morte, provocarla, anche con mezzi legali è diventata l’opzione più “corretta e amorevole” verso i bambini piccolissimi e gravemente malati. E dove l’intero processo innescato per terminarli può essere finalmente liquidato così nel rapporto di un coroner: il bambino è morto “per cause naturali”.

Fonte: Caterina GIOJELLI | Tempi.it

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