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La storia. Teatro e carcere: i 30 anni della Compagnia della Fortezza a Volterra

Per il suo trentennale la Compagnia della Fortezza propone il visionario “Beatitudo”, ispirato a Borges Punzo: «Abbiamo estratto la spiritualità dalle nostre fragilità»

 

Si sa che le beatitudini evangeliche contengono intrinsecamente un invito all’azione, nulla di passivo e statico, bensì estatico, un’uscita fuori da sé, una spinta perenne al movimento verso l’alto e l’altro. La corretta traduzione di “beati quelli che…” sarebbe infatti “in marcia coloro i quali…”. Beatitudo, l’ultimo lavoro della Compagnia della Fortezza di Armando Punzo presentato in anteprima nazionale nel Carcere di Volterra, sembra essersi ispirato, oltre che liberamente all’opera di Jorge Luis Borges come apertamente dichiarato, proprio a un concetto di moto perpetuo nel costante tentativo di elevarsi e di liberarsi dalle zavorre di una realtà troppo materica e soffocante che rischia di non lasciare più alcun spazio all’immaginazione, alla fantasia, allo spirito.

Rappresentare l’invisibile, inoltrarsi nei territori dell’immaginifico: questo l’obiettivo utopico di quello che è passato alla storia del teatro come “l’architetto dell’impossibile”, quel Punzo che non a caso dal 1988 si è volontariamente recluso in una delle carceri, all’epoca più turbolente e violente della nostra penisola, non per fare teatro terapeutico o interventi artisticoumanitari ma per portare il cielo nelle celle, il sogno impalpabile dove c’era l’incubo concreto, “le parole lievi” (titolo dello spettacolo dello scorso anno) dove esistevano gesti intrappolati, il vento vitale dell’arte dove c’era la realtà asfittica e mortifera. E per non essere un artista avvitato su stesso, beato e appagato nella sua illusione creativa aveva bisogno, come lui stesso ammette, di mura che lo contenessero, «di un ostacolo insormontabile da superare, di una realtà sempre pronta a offenderti, a vomitarti addosso tutta la sua impossibilità». I limiti fisici, burocratici, umani del carcere in pratica riflettevano ed esaltavano la quintessenza del teatro che ha nei suoi stretti impedimenti il senso e il fascino della propria esistenza e invita chi lo vive a sfidarli di continuo.

Bisogna tenere bene a mente il processo di questi trent’anni della Compagnia della Fortezza prima di accostarsi e di godere pienamente della dimensione visionaria di uno spettacolo che giunge al culmine di una ricerca sempre più tesa a destrutturare la realtà: «Borges è un ottimo compagno di viaggio in tal senso – spiega Punzo – perché i suoi personaggi, Averroé, Cartaphilus, l’Uomo Grigio, Asterione, vengono da tutte le epoche, ci sfuggono continuamente e ci hanno aiutato a evitare la trappola di una costruzione logica comprensibile». E in effetti c’è poco da capire. Beatitudo non offre spiegazioni ma inonda di visioni.

Un’opera volatile che è uscita dal carcere e presentata il 29 lu- glio in forma inevitabilmente riadattata al Teatro Persio Flacco, sempre a Volterra. Ma una metamorfosi davvero straordinaria l’ultima creazione di Punzo la vivrà il 4 agosto in uno dei più interessanti siti di archeologia industriale con il progetto, a cura di Cinzia de Felice, “Le rovine circolari” al- l’interno di una delle grandi torri di raffreddamento della Centrale Geotermica Enel Green di Larderello (Pisa), cui è stata demolita la parte superiore, trasformando il basamento rotondo in una grande arena che invasa dall’acqua apparirà come un grande lago circolare. Quindi un’opera d’arte fruibile da tutta la comunità e che diventerà uno dei teatri all’aperto più unici al mondo. Ma indubbiamente suggestiva è stata comunque la messa in scena di Beatitudo all’interno della Fortezza Medicea il cui cortile si è presentato agli occhi dello spettatore ancora più ampio e indefinito con parte delle sbarre e dei cancelli divelti.

Il colpo d’occhio è impressionante: tutto avviene quasi sempre dentro un’enorme vasca rettangolare coperta d’acqua su un’incerata che crea un effetto riflettente e una motilità e liquidità costanti. Avvolto dalla colonna sonora di Andrea Salvadori, ora minimalista, ora epica o ritmata lo spettacolo è sempre fluido e ogni presenza, sia pur incisiva e folgorante, risulta inafferrabile e si dissolve senza soluzione di continuità. Dai diciotto uomini con le loro lance di canna di bambù alte 15 metri che formano l’armata ai due contadini che seminano e annaffiano sull’acqua, dai libri che scivolano come barchette di carta in balia della corrente alle forme geometriche che galleggiano, dal bibliotecario alla principessa, dall’anziano che resta disteso sull’acqua per un tempo immemore alla donna che con voce angelica fa risuonare accenti balcanici, sono tutti personaggi simbolici e onirici. E l’evocazione finale con lo stesso Punzo che avanza con l’enorme telo sollevato alle sue spalle non è meno fantasmagorica e si presta a ogni soggettivo volo pindarico della mente. Cosa

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c’è di oggettivo invece? L’essenza del teatro testimoniata dalle parole udite in apertura: «Tutto accade qui per la prima volta». E di inoppugnabile c’è anche l’unico svelamento che il regista della Compagnia della Fortezza ci concede: «Questo è un lavoro sulla felicità. Ma guardandoci dentro ci siamo resi conto di quanto eravamo piccoli, fragili e incapaci di confrontarci con la parola felicità. Abbiamo scoperto un inferno dentro di noi, è stato estremamente doloroso; l’inferno della nostra vita quotidiana, qualcosa che ti tiene legato, che non vuole che ti muovi. Ma non ci siamo fermati e abbiamo estratto quella spiritualità che avevamo dentro provando a farla crescere e a condividerla con gli altri». In pratica una marcia verso la beatitudine, da “homo sapiens” a “homo felix”.

Fonte: Michele SciancaleporeAvvenire.it

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