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SCUOLA/ La “Commedia” di Dante a 4-5 anni, una lezione di ragione a tutti quanti

Parrebbe una follia: leggere la “Commedia” a bambini della scuola dell’infanzia (4-5 anni). Ma c’è una ragione che precede la razionalità astratta. Ed è l’asso nella manica. 

Maestre entusiaste, che ritrovano il gusto pieno d’insegnare: “I bambini mi hanno veramente stupito!”, oppure “Non avrei mai immaginato che si potessero divertire persino a memorizzare una parte per lo spettacolo di fine anno”. Allievi di cinque anni affascinati; quelli di quattro incuriositi e motivati; tutti interessati, attenti, coinvolti. Bambini che colgono perfettamente il senso dei passaggi narrativi; che chiedono quotidianamente se si possa proseguire il racconto; che riportano a casa il racconto ascoltato a scuola, e che attraverso di esso, come fosse un paio di occhiali, riguardano e rileggono l’esperienza quotidiana. Genitori coinvolti nel vortice dell’entusiasmo, che si cimentano a loro volta nella lettura di Dante con i figli, e che chiedono di poter assistere a qualche lezione. In sintesi: una scholé (echein, possedere), dove il tempo è servito per “possedere” più se stessi, per essere di più.

Nei bambini è migliorata l’espressione verbale, la ricchezza lessicale, la precisione grafica. È nato il “verde puzza” per riuscire a colorare il male, perché all’inferno l’odore è nauseabondo. È migliorata l’espressione corporea, la capacità di immedesimazione drammatica: c’è chi ha fatto Dante, chi ha fatto Virgilio, chi Caronte, chi Omero, Orazio, Ovidio e Lucano, chi avari e prodighi che spostano un grosso masso, chi Ulisse e Diomede, chi Manfredi, chi Beatrice, chi un angelo, chi una piccola fiammella, e ogni Virgilio, a turno, ha portato a casa la sua corona d’alloro. La memoria ha afferrato potentemente temi, nomi, luoghi senza perdere un dettaglio. Il ragionamento si è cimentato con destrezza tra grandi temi della vita, ad esempio incontrando Ciacco: “Che cosa è necessario? Che cosa è davvero necessario?”. Oppure tra gli iracondi immersi nello Stige: “Quando siamo arrabbiati, facciamo soffrire chi ci sta vicino”. O nel bosco dei suicidi: “Forse è capitato loro qualcosa di brutto e non riescono a essere felici”. E che differenza c’è tra Ciacco e Forese Donati, golosi tutti e due, eppure il primo sprofondato nel fango dell’inferno, mentre il secondo scarno e ossuto davanti a un albero di frutti succulenti senza potersene cibare, in purgatorio a un passo dalla beatitudine? “Forese ha chiesto scusa, Ciacco no”, cioè l’uno al contrario dell’altro ha riconosciuto che cos’era bene per lui. E poi: “Perché il cielo della Luna è luminoso, se quando io vedo la Luna è perché c’è il buio?”.

Da qui al francese Eugène Delacroix con la sua La Barque de Dante, che bambini di cinque anni interpretano nei dettagli, fino all’Ave Maria intonata da Piccarda Donati nel cielo della Luna, un’antifona mariana di genere gregoriano, semplicissima e quindi cantabile all’infanzia, e che nei secoli venne ripresa dallo spagnolo Tomás Luis da Victoria, che ne fece un mottetto a quattro voci miste, cantabile da un coro ormai adolescente.

È questo l’esito della lettura delle tre cantiche della Commedia dantesca in scuole dell’infanzia italiane con bambini di quattro e cinque anni, dal Piemonte alla Puglia: a Pasquaro, frazione di Rivarolo Canavese (Torino), a Rocca di Papa (Roma), ad Acerra (Napoli), a Lecce e a Cursi (Lecce). La prima di quattro tappe (scuola dell’infanzia, primo ciclo della primaria, secondo ciclo della primaria, secondaria di I grado) di un curricolo verticale dantesco, che a spirale crescente legge la Commedia tra i 4 e i 13 anni rispettando una capacità conoscitiva ancora largamente non-razionale, che prepara la lettura del testo integrale dantesco, che poi avverrà su base prioritariamente razionale tra i 15-18 anni.

Entro un panorama in cui quasi tutti lamentano un vuoto educativo e l’incapacità di ritrovare il nesso tra l’istruire e l’educare, ritrovare una capacità di imparare nell’orizzonte del crescere, la lettura della Commedia all’infanzia ha di-mostrato che educare non solo è possibile, ma lo è recuperando la pienezza della straordinaria eredità culturale cui apparteniamo.

Qual è il segreto?

Una parte del segreto certamente consiste nella competenza professionale, nella motivazione e nel profondo coinvolgimento in una prospettiva conoscitiva nuova da parte delle docenti, che hanno accettato una sfida che per talune inizialmente sembrava impossibile. Un’altra parte del segreto consiste poi nell’affondare la lettura dantesca in una concezione di ragione che allarga la capacità di ragionamento oltre la sola razionalità, utilizzando quest’ultima come strumento ulteriore e indispensabile, ma successivo a una comprensione che è già stata garantita prima, dentro l’esperienza, e sulla base di parametri valutativi vitali. Si tratta di una comprensione di tipo corporeo, concreto, rapido, automatico, involontario, gestaltico, selettivo nella percezione e nella memoria, semplificato e approssimativo, warm, flessibile, adattivo, elaborativo per opposti, nel presente, senza ricorso al linguaggio e unicamente valutativo. Una ragione diversissima dalla razionalità, che invece è di tipo astratto, lento, volontario, schematico, cold, descrittivo, categoriale, linguistico, ed elaborativo nelle modalità le più ricche e le più diverse, come ad esempio quella logico-deduttiva, oppure analitico-sintetica, ecc. Abbiamo cioè restituito ai bambini il loro modo di ragionare, che ad esempio la fiaba popolare classica conosce benissimo, e che il più delle volte l’adulto perde cammin facendo. “Tutti i bambini sono artisti nati — riconosceva Pablo Picasso —. Il problema è rimanere artisti da grandi”.

Ciò che per Joseph Ratzinger era un auspicio, “riconoscere al di là di quella strettamente razionale altre forme di verifica, in cui gioca il suo ruolo l’uomo nella sua interezza” (Fede, Verità, Tolleranza), oggi è un modello operativo, che nel turbinio post-moderno consente di tornare a insegnare, a imparare, a crescere con entusiasmo. Noi l’abbiamo ricostruito attraverso un’interpretazione epistemologicamente inedita dell’emotività e dell’affettività umane in chiave conoscitiva (Cervi M. et al., 2008; Cervi M., 2012), che in prima istanza propone una nuova definizione del costrutto di “intelligenza emotiva” (Emotional Intelligence), costituito non da un insieme di competenze, ma da una natura specificamente cognitiva. E in seconda istanza introduce il costrutto di “ragione emotiva”, integrando acquisizioni scientifiche relative alla teoria dell’appraisal (M. Arnold, Ortony, Clore & Collins, K. Scherer), evidenze di carattere neurobiologico (J. LeDoux, A. Damasio), funzionalità comunicative (A. Fogel), però a partire da un impianto parametrale (Process of Multi-level Sequential Checking) nuovo e vitale.

Non solo tra i 4-13 anni Dante può essere letto, suscitando non a caso un interesse eccezionale nei bambini, ma deve essere letto, perché sviluppi in tutta la sua ampiezza quell’intelligenza che deve rimanere viva e vitale, se poi vorrà non solo coinvolgere l’adolescente nell’opera letteraria più importante di tutti i tempi, ma anche formare un adulto capace di consapevole, positiva ed entusiasta costruttività nel mondo.

Educare è possibile perché abbiamo fatto tesoro dell’affondo razionale della modernità, recuperandone però — come direbbe Fabrice Hadjadj — le radici. Abbiamo cioè recuperato l’integrità di una ragione che precede — come direbbe Umberto Galimberti — l’operazione conoscitiva platonica, e che è ancora rintracciabile nella parabola di pensiero europea del primo Millennio prima della rottura tra Occidente e Oriente, sulla base però di una ricerca scientifica, la cui avventura in Occidente è stata resa possibile anche da istanze razionaliste.

Educare è possibile quando, oltre la modernità, non ci insabbiamo nelle derive della post-modernità, ma spicchiamo il volo nel pieno recupero dell’umano, affinando una didattica ad esso adeguata.

Fonte: Manuela CERVI | IlSussidiario.net

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