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ALESSANDRO D’AVENIA – Tredici ragioni per vivere

«La mia vita non vale niente». Hannah pronuncia queste parole con gli occhi lucidi, il massimo che può concedersi per non crollare di fronte a un insegnante, che la rassicura con qualche frase fatta e la congeda, perché deve rispondere al cellulare che ha vibrato più volte da quando è iniziato il colloquio con l’ennesima adolescente in crisi. Lei esce dalla stanza, si ferma dietro la porta a vetri per rendere visibile la sua sagoma: aspetta immobile per qualche istante nella speranza che il professore esca per fermarla e prendere sul serio le sue parole, ma la porta rimane chiusa. La ragazza torna a casa e si toglie la vita.

Si tratta di una delle scene cruciali della prima stagione della serie Tredici, tra le preferite dagli adolescenti, ispirata al libro di Jay Asher dal titolo completo Thirteen reasons why. Racconta la storia di una diciassettenne che, prima di mettere in atto il suicidio, registra 13 audiocassette nelle quali ne descrive le ragioni, ognuna è dedicata agli «amici» che sono coinvolti nella sua decisione. A poco a poco emerge una storia di violenza verbale e fisica, di cui è responsabile anche chi si riteneva innocente. Solo la tredicesima cassetta è non a caso per un adulto, l’insegnante che non ha saputo ascoltare, ultima e decisiva ragione per morire. Le serie televisive sono oggetto di conversazione con i miei studenti durante l’intervallo: occasioni in cui ciò che si agita nelle loro teste e cuori trova finalmente le parole.

Le narrazioni infatti aiutano i ragazzi a configurare e mostrare i loro bisogni profondi, dato che, alla loro età, sono disposti a parlare di sé agli adulti solo indirettamente. Conoscere il libro, la canzone, il film, e appunto la serie tv, preferiti di un adolescente è essenziale per cogliere la direzione del suo sguardo. Per questo di anno in anno sottopongo agli studenti lo stesso questionario sulle loro preferenze, per vedere quali rimangono nel tempo e quali si evolvono, quali zone interiori sono già fondamenta e quali ancora sabbie mobili. Conoscere le narrazioni con cui si identificano è essenziale. Perché?

La letteratura è un lusso ma la narrativa è una necessità. Le serie tv sono un banchetto per la fame di storie, che ci caratterizza e va oltre la mera necessità di allentare la tensione del duro vivere quotidiano. Vale soprattutto per gli adolescenti, per i quali le narrazioni sono veri e propri saggi di identità personale e sociale. La nostra identità è un racconto, senza il quale ci perderemmo negli eventi senza riuscire a dar loro un senso. Sin da bambini amiamo ascoltare le stesse favole, raccontate nello stesso modo, perché da quelle narrazioni dipende l’ordine del mondo. Miti e fiabe sono una vera e propria «metafisica fantastica», attraverso cui orientarsi e affrontare ciò che si teme e ignora: avventure, paure, dolore, morte… Bambini e adolescenti senza storie sono privi degli strumenti per affrontare la realtà, perché narrare non è un passa-tempo, ma la tecnologia essenziale per fermare il tempo, strappandogli una trama. Il bel libro di Jonathan Gotschall, «L’istinto di narrare», mostra la necessità biologica ed evolutiva dei racconti. Chesterton diceva che le favole non servono a mostrare ai bambini che esistono i draghi, ma come si sconfiggono. Aveva intuito quanto gli studi odierni confermano: le storie servono a trasmettere e fare esperienza. La finzione narrativa è la basilare realtà virtuale che, simulando problemi, paure, paradossi, ci prepara ad affrontarli. Cristo non ha scritto nulla ma ha raccontato storie, anzi «parabole», da cui l’italiano «parole», perché le parabole servono a sbrogliare i nodi più intricati della vita, prima che a intercettare onde elettromagnetiche.

Per il nostro cervello simulare equivale a fare. Guardare una partita di tennis o giocarla attiva le stesse aree cerebrali. L’uomo ha bisogno di risolvere problemi e le narrazioni sono simulazioni che modificano o stabilizzano le connessioni neurali necessarie a farlo: la ripetizione di certi compiti migliora la nostra capacità di esecuzione, scava solchi profondi nel cervello, rendendo le azioni più sicure ed efficaci (come i piloti con i simulatori di volo). Da qui deriva la necessità di ripetere, con pazienza, le favole ai bambini, e forse è uno dei motivi del successo delle serie: in un presente confuso abbiamo bisogno di esplorare e trovare il senso delle cose, attraverso la familiarità con personaggi coinvolti in ipotesi narrative sulla vita. La dipendenza è fuga dalla realtà, come già raccontato da Cervantes e Flaubert, ma anch’essa tradisce la necessità di dare ordine al caos dell’esistenza, di trovare il bandolo della matassa. Più siamo orfani di senso più cerchiamo il filo che permette di tornare a casa, come il filo di pietre di Pollicino abbandonato di notte nel bosco o il filo di Arianna per salvare Teseo dal labirinto.

La parola nichilismo è di formazione abbastanza recente a partire dal latino nihil, che significa «nulla», la cui origine sembra sia ni-hilum, «non un filo». Il nulla esistenziale, il nichilismo odierno, è aver perso il filo, non avere neanche una traccia per orientarsi nel labirinto del mondo. Per questo diciamo di aver perso il filo del racconto, del discorso o, ancora più radicalmente, della vita. Come ripetono le nonne siciliane: «a vita è nu filu», la vita è un filo, eco di miti antichi e del fatto che il mondo è abitabile solo se, all’interno del suo continuo mutare, si ordiscono trame sensate: le nostre vite. Anche per questo è intrigante il luogo comune secondo cui negli ultimi istanti vedremo passare davanti ai nostri occhi la vita intera. Che vuol dire? Che ne vedremo il film, la selezione di scene essenziali a darle significato, a farne una trama, la nostra storia, chi siamo. La memoria è il nostro narratore.

Narratore, dall’antico aggettivo latino «gnarus», era chi sapeva il fatto suo in un ambito e trasmetteva, raccontando, ciò che conosceva per esperienza. Attraverso le storie autorevoli riceviamo e facciamo esperienza, e ne abbiamo bisogno in una cultura in cui fare esperienza è assai difficile: grazie alla rete entriamo in contatto con infiniti pezzetti di mondo, che però non si trasformano in «vissuti», non sono tessere di un mosaico da comporre ma coriandoli. La rete, frantumando spazio e tempo, ci offre una percezione senza coerenza narrativa, ma l’esperienza non è accumulo di immagini e informazioni, ma presa stabile e veritiera sulla realtà. Chiedetevi quali sono le scene imprescindibili della vostra storia, e scoprirete nella memoria i momenti in cui avete afferrato la realtà, cioè avete veramente «vissuto». Probabilmente ci troverete i vostri incontri più profondi e decisivi col mondo, soprattutto amori e dolori.

Tredici, per quanto controversa (è vietata ai minori di 14, cioè saranno proprio loro a guardarla), mi ha aiutato a capire meglio i ragazzi. «La mia vita non vale nulla» è la minaccia nichilista che traduco: volete, voi adulti, mostrarmi, visto che i miei coetanei ne sanno quanto me, se la mia vita è l’inizio di qualcosa di nuovo che solo io posso realizzare? Nella serie l’assenza degli adulti è sottile: distanti anche se presenti, a volte incapaci di ascoltare, a volte di proporre orizzonti di senso alle giovani vite. Il coprotagonista maschile, diciassettenne, dice allo stesso insegnante con cui la ragazza si era confidata: «Dovremmo imparare a volerci bene… in modo migliore». Ecco dunque l’antidoto alla minaccia nichilista: non basta il rispetto, non bastano regole, nozioni e informazioni, non basta lo stesso tetto (familiare, scolastico…), non bastano profili, contatti e follower. Ci vogliono relazioni generative e rigenerative, cioè quelle in cui il nostro valore è riconosciuto sempre e comunque, senza doverselo accaparrare. Solo questo riconoscimento genera e rigenera, cioè attiva le qualità del soggetto e lo rende libero, mettendolo al riparo dall’identificare mancanze, cadute e ferite, con il proprio valore.

Questo sguardo è quanto i ragazzi chiedono oggi. Me lo ha confermato la recente lettera di una diciassettenne vittima di bullismo: «la mia è stata decretata una “vita di merda”, nella quale sono destinata a essere sola. Mi hanno urlato “non piaci a nessuno, come fai ad andare avanti?”. Ho perso il papà e da allora vivo una vita di sacrifici, in cui mia madre fatica ad arrivare a fine mese e per questo ho dovuto rinunciare alla psicologa.

Effettivamente la mia è una “vita di merda” e forse dovrei farla finita come dicono loro. Ci ho provato due volte, ma poi non l’ho fatto perché morire continua ancora a spaventarmi di più che vivere. Inoltre non lo posso fare perché ci sono persone, spesso solo adulti, che credono in me e ritengono io possa fare nella vita grandi cose».

Solo gli sguardi e le parole di chi crede in noi permettono la fioritura dell’umano: sono la luce per la fotosintesi di ciò che è umano nell’uomo. Il letto da rifare oggi è scrivere noi, e poi far scrivere ai ragazzi, almeno tredici ragioni per cui vale la pena stare al mondo.

Fonte: Corriere della Sera.it

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