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«Attenti al via libera». Anche esperti lgbt contro il farmaco che ferma la pubertà

L’attivista Regina Satariano: questione delicata E la psicologa Roberta Rosin, pur indicando casi estremi, sollecita cautela

Regina Satariano, attivista trans, imprenditrice, nota soprattutto per essere l’organizzatrice di Miss Trans Italia, oltre che responsabile del consultorio transgenere di Torre del Lago (Lucca) e vicepresidente Onig, quando parla dell’utilizzo della triptorelina per fermare lo sviluppo puberale degli adolescenti in vista dell’eventuale transizione di sesso invita alla cautela: «Il blocco degli ormoni in età puberale è una questione delicata che necessita di sicurezza diagnostica ».

Al di là delle opinioni sulle scelte di vita di Regina Satariano, non si può negare che sia un’esperta del tema. E se addirittura una delle leader del movimento trans sollecita attenzione e prudenza a proposito dell’utilizzo di questo farmaco, vuol dire che la questione è molto seria. Eppure è proprio su questo che l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, sta dibattendo. Dopo il via libera del comitato tecnico-scientifico, e in attesa delle decisioni degli organi deliberativi (con il direttore generale Mario Melazzini che ha chiesto un parere preliminare al Comitato nazionale per la bioetica), il dibattito non accenna a placarsi.

Quanto è giustificabile dal punto di vista clinico autorizzare un farmaco come la triptorelina nella cura della disforia di genere? La psicologa e psicoterapeuta funzionale Roberta Rosin (Padova) si occupa del problema da molto tempo, e lo scorso anno ha scritto con la collega Chiara Dalla Luche un libro che racconta in diretta il mondo conflittuale e complesso delle persone a disagio per la discrepanza tra sesso biologico e identità di genere. Si intitola Sconvolti. Viaggio nella realtà transgender (Alpes, 110 pagine, 13 euro). Oltre a un’intervista con Satariano – da cui abbiamo preso il passo citato –, il saggio racconta senza edulcorare nulla, con un linguaggio a volte crudo, il pianeta di coloro che soffrono perché, come dice una delle persone di cui si riferiscono le vicende cliniche ma soprattutto umane, «sono un maschio e mi manca un pezzo e questo pezzo bisogna capirlo bene, altrimenti avrò sempre la sensazione di scontentezza».

Anche Roberta Rosin, su triptorelina e dintorni, invita alla cautela. Anzi, spiega che «il tema è talmente delicato da risultare imbarazzante ». Non è una chiusura assoluta la sua. Spiega che esistono rari casi in cui il farmaco potrebbe anche rivelarsi indispensabile. Ma non nega che la difficoltà di definirne numeri, caratteristiche, tipologie richiede un lavoro lungo e paziente, condotto da un’équipe multidiscplinare che non si può improvvisare.

Perché è difficile capire quali sono i rarissimi casi in cui si dovrebbe intervenire farmacologicamente e quali invece consigliano un intervento solo di accompagnamento psicologico o psicoterapeutico? Perché è difficile parlare di questa tematica? Perché è difficile capire da cosa è causato. Perché si tratta di una situazione che, al di là di una cultura che vorrebbe normalizzare e giustificare tutto, la sofferenza di chi si sente maschio in un corpo femminile – o viceversa – e prova una sofferenza profonda e destabilizzante per la sua condizione è qualcosa che ancora suscita disorientamento e imbarazzo.

E poi si tratta di un disagio reale o di un atteggiamento indotto da condizionamenti familiari? È qualcosa di autentico o che appartiene alla dimensione del gioco, seppure paradossale e talvolta autopunitivo? Rientrerà al termine dell’adolescenza o si trasformerà in una faticosa, e spesso sconvolgente, scelta di vita? Anche le statistiche scientifiche più accurate non agevolano i tempi e i modi degli interventi.

«Mentre nell’infanzia la persistenza della disforia di genere è compresa tra il 12 e il 27% dei casi e quindi nella maggioranza dei casi i bambini non manterranno la disforia in età adulta, in adolescenza la situazione è diversa e di solito persiste». Il dilemma per Roberta Rosin potrebbe essere sintetizzato così: «Da una parte c’è un farmaco che determina un blocco non solo dello sviluppo del bambino o bambina ma anche dei ‘sistemi integrati’ che determinano il sé, inteso come persona».

Fermare un aspetto di quel ‘circuito’ quali squilibri può provocare? E chi lo stabilisce? Servirebbe un’équipe multidisciplinare composta da specialisti davvero esperti e preparati. In Italia ci sono – per esempio gli 8 centri legati all’Osservatorio nazionale sull’identità di genere – ma quando si offre un farmaco così rischioso come non pensare ai possibili utilizzi impropri? Se tuttavia è vero che lo sviluppo dell’identità sessuale non è prevedibile, è altrettanto vero che i casi di sofferenza profonda ci sono e che non mancano i bambini sconvolti dall’incapacità di esprimersi perché sentono di appartenere a un genere diverso rispetto a quello biologico.

«Quando l’avversione per la propria anatomia sessuale è così profonda e radicata da far temere gesti pericolosi – argomenta l’esperta – è lecito chiedersi se la somministrazione controllata di triptorelina non potrebbe configurarsi come male minore. Se il criterio che deve guidarci è sempre il bene della persona, sono domande che non possiamo evitare». Insomma, uno scenario aperto, in cui i dubbi rimangono ampiamente prevalenti sulle certezze.

Fonte: Luciano MOIA | Avvenire.it

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