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Alessandro D’Avenia – Un pianoforte su Marte

«Signore, dov’eri?». Una giovane donna passeggia da sola in un bosco, gli alberi come giganti la accerchiano, i suoi occhi sono offuscati dalle lacrime appena versate. Guarda verso l’alto dove ritagli di cielo si liberano tra rami che vogliono intrappolare il suo dolore: suo figlio è morto. Nel silenzio del bosco la donna interroga Dio. A questo punto il regista Terrence Malick rende il film The tree of life un esercizio di meraviglia, traducendo in immagini la risposta alla domanda della donna: quella stessa risposta che Dio diede a Giobbe nell’omonimo libro della Bibbia, mostrandogli la creazione. Sotto gli occhi dello spettatore si dispiega per alcuni minuti la bellezza di tutte le cose, dall’infinito delle galassie all’infinitesimale delle connessioni neurali, mentre uno struggente Lacrimosa, tratto dal Requiem per un amico di Preisner, trasforma in musica il pianto della donna schiacciata dal male, dal dolore, dalla morte. Il contrasto tra il doloroso canto femminile e le immagini di una natura potente ed elegante forma un dialogo incandescente. Un momento di pura e rinfrancante contemplazione, in cui la Bellezza e il Dolore sono faccia a faccia. Il dolore ha generato la domanda, che costringe Dio a rispondere con le sue credenziali mostrando che non ha smesso di prendersi cura del creato, tanto che Giobbe esclama «prima ti conoscevo per sentito dire, ora invece ti vedo». Nel film la telecamera ritorna sui passi rinfrancati della bellissima Jessica Chastain: tutto ciò che abbiamo visto è successo dentro di lei, come un viaggio dantesco. Quando rivedo questa scena i nodi del dolore si allentano e ritrovo speranza, perché la bellezza è il baluardo posto contro il nulla e il male: le cose, anche se non lo sanno, esistono e lottano per essere belle.

Chiamo questi momenti «un pianoforte su Marte»: momenti sempre più difficili da vivere in un quotidiano asfissiato da una quantità sempre maggiore di impegni, di cui a volte riempiamo il tempo anche quando potremmo fermarci. Aumentiamo il rumore per non sentire il panico dell’insignificanza, per farci sordi al silenzio minaccioso della vita nuda, che invece può rivelarsi una voce comprensiva. Mentre Elon Musk promette affollate gite su Marte nel giro di qualche anno, io sistemo il mio immaginario sgabello al centro di uno degli immensi crateri del pianeta rosso, nel silenzio cosmico, senza nulla da poter o dover fare, da poter o dover dimostrare. Premo un tasto per squarciare lo spazio muto e fare una cosa bella e totalmente inutile, mentre, facendo i conti col male, il dolore, la paura, emerge anche in me quella stessa domanda: dove sei?

La risposta di Dio, come quella a Giobbe e alla madre, mi lascia interdetto: non è fatta di ragionamenti, come vorrei, ma da un invito ad aprire gli occhi. All’uomo viene mostrata la bellezza delle cose, dalle migrazioni degli stormi al moto degli astri. Come se il male non si potesse eliminare con un ragionamento, ma solo superare con una contromossa creativa. Perché? Perché la bellezza vera, che è evidenza di un’ininterrotta tensione al compimento, se ci tocca è una voce che, al nostro interrogativo, pone una spiazzante contro-domanda: dove sei tu, piuttosto? A che punto sei tu con i doni della vita? Il dolore non viene rimosso, ma disinnescato perché la risposta ne orienta il senso invitandoci a non usarlo come atto di accusa o di ritirata, e solo così può diventare fecondo. L’ho capito meglio ascoltando urlare un personaggio dei Demoni di Dostoevskij: «Io dichiaro che Shakespeare e Raffaello stanno al disopra del nazionalismo, del socialismo, della chimica, di quasi tutto il genere umano, perché sono già il vero frutto di tutto il genere umano, e forse il frutto più sublime! Sono una forma di bellezza già raggiunta, senza la quale io non accetterei neanche di vivere… Ma lo sapete che senza la bellezza l’umanità non avrà assolutamente nulla da fare al mondo! Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui! La scienza stessa non si reggerà un minuto senza la bellezza, lo sapete, questo, voi che ridete? Non inventerete nemmeno un chiodo!». La bellezza ci mostra che la vita è una non sempre evidente creazione continua, che noi possiamo rallentare non interrompere, una cura del mondo che rinnova quella speranza senza cui non c’è desiderio di compimento, come sa chi soffre di depressione: la speranza è ingabbiata, non si vede nulla di bello e quindi nulla da compiere.

Perciò do ai miei alunni i «compiti di silenzio»: 10-15 minuti di quiete, lontani da qualsiasi oggetto, disponibili a sentire tutte le voci che sussurrano o urlano dentro, per soffermarsi sulla più autentica. Per noi e per chi ci è accanto dovremmo trovare momenti di pianoforte su Marte, in cui, in mezzo a paure mute e incombenze urlate, poter lasciare risuonare le domande nascoste nella stanza più interna del cuore, il cuore del cuore, come Amleto chiama il luogo in cui accogliamo solo gli amici veri. Sono domande che al solo ascoltarle trovano parte della risposta, che è già nel coraggio di non accantonarle come infantili o inutili. Le temiamo perché lasciano sgorgare tutto il dolore e la paura che ci portiamo dentro. Se ne stanno un gradino sotto la soglia consapevole, accovacciate, come tigri tra i cespugli dei mille impegni, della ripetitività dei giorni, delle ferite delle relazioni, delle fragilità del carattere, del male che colpisce e quello con cui colpiamo. Domande che non sono il frutto di un ragionamento, ma la fibra stessa della vita, il grado zero: vale la pena esser nati? Per cosa vale la pena vivere? L’essenziale della vita gioca a sfuggirci perché impariamo a non accontentarci, a non fare tutto da soli, ad affidarci ad altro da noi. La domanda su ciò che precede e segue la vita, non è alla nostra portata, però ce la portiamo dietro e dentro. Tenerla viva ci rende umani, perché apre la conversazione interiore che solo a noi è data, e non alle pietre, alle piante, agli animali, perché solo a noi, in quello spazio intimo, è concesso di aver paura della morte e poi resisterle.

Tutta la cultura umana è resistenza alla morte, come mostra il salto evolutivo delle ossa inumate dai nostri antenati più antichi. Gli Egiziani hanno lasciato enormi tombe a forma di piramide. I Greci si affidarono alla parola che svela e ricorda: da Achille ad Alessandro Magno, meglio una vita breve ma gloriosa che una lunga ma anonima. I Romani confidarono nelle loro mani, costruendo vie, ponti, acquedotti ed eserciti, per rendere perenne l’Impero. Gli uomini del Medioevo levarono cattedrali di pietre e di parole per ospitare un frammento dell’eternità di Dio. Gli uomini del Rinascimento quell’eternità vollero crearla, scoprendosi loro stessi degli dei. Poi venne chi cercò di resistere affidandosi alla Ragione, al Sentimento, alla Volontà, alla Scienza. E ora alla Tecnologia che sogna di mescolare l’uomo e la macchina per sottrarre la materia alle sue fragilità e al suo decadere. E chissà cos’altro impugneremo per la nostra ribellione contro la morte.

Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera di una ragazza che, leggendo un libro, aveva suonato il suo «pianoforte su Marte», ma concludeva: «non ho coltivato i germogli che le parole avevano portato. Si sono seccati. L’animo umano è fragile; ci facciamo trasportare dalle emozioni e poi non abbiamo il coraggio di trasformarle in qualcosa di più. Ho una pagina del libro attaccata in camera per ricordare a me stessa la BELLEZZA che ho assaporato. Ma le belle parole, non sostenute dai fatti, rimangono sospese in aria, per poi essere spazzate dal vento della quotidianità. Non so come fare. Non so come far durare ciò che mi risveglia e riempie». Far durare ciò che rende viva la vita, questo è il punto. Perché scivoliamo nell’inerzia? Perché facciamo tacere la voce che indica una destinazione? Perché troppo di rado frequentiamo l’unico catalizzatore di forze presenti, ma disperse o inerti, dentro di noi: la Bellezza. Diciamo di un libro, un incontro, un’esperienza anche dolorosa: mi ha salvato, perché sentirsi salvati è aver trovato l’antidoto efficace al continuo cadere della nostra vita, aprire un tempo affrancato dal tempo, senza però fuggire dalla realtà. Quando il tempo vola, in realtà non ha fatto altro che aprirsi alla vita che non muore, alla vita indistruttibilmente viva. È aver trovato il Graal dell’esistenza.

Il letto da rifare oggi è un pianoforte su Marte, quello da suonare almeno una volta al giorno, per noi e per chi ci sta attorno, come quei pianoforti che a sorpresa qualcuno decide di usare per allietare luoghi caotici e anonimi come stazioni o aeroporti, ridando un nome a ciascuno di quelli che si fermano ad ascoltare. Grazie a quel pianoforte su Marte accetteremo che la vita, prima che un ragionamento, è un nodo vitale di dolore e speranza. Solo così potremo aprire uno spazio interiore di resistenza alle forze disgreganti della morte e non su Marte, ma sulla Terra. Solo così potremo riaprire gli occhi e vedere faccia a faccia chi o cosa ci permette di non morire, e non dopo la vita, ma durante.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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