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ARCHITETTURA E SPAZIO LITURGICO – Debuyst, così si costruisce una chiesa armoniosa

 

In un libro i dialoghi del fondatore del monastero belga di Saint-André de Clerlande con architetti, teologi e artisti. «Lo spazio liturgico va rispettato. È la domus ecclesiae»

E’ un genius loci propriamente cristiano: la chiesa nella sua presenza più pura. Da anni ne parla Frédéric Debuyst. Con mirabile sintesi ne riassume il tema nel suo ultimo volume, Elogio di nuove chiese (Qiqajon, pagine 226, euro 22,00). Fondatore del monastero benedettino di Saint-André de Clerlande in Belgio, esperto e appassionato di architettura per la liturgia, sapendosi prossimo al tramonto (ha lasciato questo mondo l’11 dicembre 2017) ha lo ha scritto come un commiato.

Con rievocazioni di dialoghi intrattenuti con figure quali gli architetti Louis Kahn, Emil Steffann, Glauco Gresleri, il pittore Alfred Menessier, il teologo Heinrich Kahlefeld (“successore” di Romano Guardini), la collezionista e mecenate Dominique de Menil. E con tante descrizioni, svolte come visite attente al senso dei luoghi. «È a partire dalle piccole cose che possiamo sperare di costruire un mondo realmente armonioso»: le parole di Alvar Aalto sono riprese per spiegare come guardare alle architetture. Delle chiese egli apprezza la completezza e la semplicità, non la forma o l’imponenza.

Lo spazio liturgico va rispettato nella sua nobiltà: dev’essere intimo e accogliente. Il paradigma è quello della domus ecclesiae, atta a rievocare la “stanza al piano superiore” dove Gesù incontrò gli apostoli nell’ultima cena: un luogo familiare. Quel che Romano Guardini e Rudolf Schwarz avevano sperimentato già alla fine degli anni Venti, in quella Sala dei Cavalieri del Castello di Rothenfels che resterà come “incunabolo” della riforma liturgica e modello di riferimento per le chiese contemporanee. Già a metà degli anni Cinquanta diverse sono le opere che presagiscono il Concilio e si propongono come esempi di modernità: come quelle progettate in Svizzera da Fritz Metzger e Hermann Baur, in Finlandia da Kaija e Heikki Siren, in Austria da Wilhelm Holzbauer, in Germania da Emil Steffann, in Italia da Mangiarotti e Morassutti. Si distinguono per limpidezza di volumi e attenzione per l’ariosa semplicità dello spazio.

Quale liturgista lo stesso Debuyst ha operato in particolare col progettista Jean Cosse per diverse chiese in Belgio, tra cui la cappella del suo monastero a Clerlande (del 1983): un’aula quadrata dalle pareti bianche, leggere colonne lignee, un’abside aperta da un arco. Un esempio digenius loci cristiano: «Tutti cantano “nel coro” – spiega – tuttavia la gerarchia degli spazi resta marcata e presente, orientata verso la piccola abside di luce che qui si può davvero chiamare “escatologica”».

Lo spazio coinvolge e si fa prossimo, nell’equilibrio della semplicità. Qualcosa che Debuyst riconosce anche in molte chiese del XXI secolo, come la cappella del seminario di Nossa Senhora da Conceiçao a Braga (Portogallo) di Lisa Sigfridsson, la cappella di Notre-Dame-del’Espérance a Louvain-la-Neuve in Belgio, di Baudouin Libbracht e Jean-Claude Bodeux, la Porciúncula de la Milagrosa a La Colera in Colombia, di Daniel Bonilla, la chiesa di Saint-François-de-Molitor a Parigi progettata da Jean-Marie Duthilleul. Anche ai nostri giorni vi sono tante chiese degne di questo nome. Forse risaltano poco: trovano bellezza nella semplicità e nella completezza, non nell’evidenza e nella sontuosità.

Fonte: Leonardo SERVADIO | Avvenire.it

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