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Le ombre del caso Moro

“Via Mario Fani, angolo via Stresa, ore nove e quindici. Quattro uomini sono morti, un altro colpito da tre proiettili, morirà dopo pochi minuti. Un gruppo delle Brigate Rosse ha sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e ha fatto strage della sua scorta”. L’apertura del Corriere della Sera datato 17 marzo 1978, a firma Purgatori e Zincone al centro della prima interamente dedicata al rapimento del politico a Roma, espone con nuda chiarezza la cronaca di quei pochi minuti che, 24 ore prima, avevano iniziato a sconvolgere un Paese giunto al culmine della tensione degli anni di piombo.

La prima pagina del Corriere della Sera del 17 marzo del 1978

Un ritmo scandito quasi fosse un lancio radiofonico, puntuale nella descrizione “tecnica” di un evento che avrebbe sconvolto un’intera Nazione, posta di fronte all’inevitabile naufragio di quel compromesso storico che aveva tentato la via della stabilizzazione attraverso l’intesa fra Dc e Pci, istigando di riflesso la reazione estrema degli ambienti eversivi. Il rapimento di Aldo Moro pose l’Italia di fronte a un atto di rivolta che, forse per la prima volta, aveva toccato nel vivo il mondo politico e l’impalcatura democratica del Paese, rimasto comunque su posizioni granitiche rispetto alla richiesta provocatoria della liberazione di alcuni terroristi processati a Torino, forse l’unico terreno di trattativa, comunque mai tastato, fra Stato e terroristi. Una linea d’azione più o meno condivisa che lo stesso Moro non mancò di appuntare in molti suoi aspetti nelle lettere che inviò dalla sua ignota cella di prigionia, anche con toni piuttosto aspri indirizzati soprattutto allo stato maggiore della Dc dell’epoca. In generale, il rapimento del presidente può essere considerato il vero punto di non ritorno della storia politica italiana, il fallimento di una strategia d’intesa su basi forse troppo fragili per reggere il confronto con la dirompenza del momento storico in cui venne istituita. E questo nonostante un’esperienza, quella del cosiddetto “governo di non sfiducia”, che aveva rappresentato una breve seppure significativa stagione politica di contrasto alla crisi economica e sociale. In quello stesso 16 marzo, giorno del sequestro, Camera e Senato accordarono al Governo Andreotti IV quella fiducia lampo che avrebbe potuto rappresentare la pietra angolare del sentimento di solidarietà nazionale generato dal precipitare degli eventi, un nuovo tentativo di dar seguito all’intesa Moro-Berlinguer del 1976. Un’impalcatura che, pur densa di riforme (tra le quali il Sistema sanitario nazionale), non riuscì però a reggere che un solo anno.

All’angolo fra Via Stresa e Via Fani, teatro del violento agguato costato la vita ai cinque agenti della scorta Moro, esiste una targa in ricordo del sangue che fu sparso su quell’asfalto, disseminato di bossoli e vetri infranti non solo delle auto crivellate di colpi ma anche di uno Stato che, proprio in quei giorni, stava cercando di salvare quella via d’intesa democratica della quale il presidente della Dc si era fatto garante. Dal 1969, l’Italia era stata investita dal vento della rivolta sociale, l’esperienza forse più dura dell’intero dopoguerra, condito da lotte intestine ed eversione giovanile e da una crisi economica e politica che la stretta di mano fra il Pci di Berlinguer e la Dc dell’ex premier aveva provato ad arginare siglando il Compromesso storico. La raffica di proiettili esplosi contro le vetture e che, solo per 55 giorni, risparmiarono Aldo Moro, segnò l’apice dell’azione terroristica. In un Paese nel quale l’identificazione con la classe politica iniziava a venir meno, alimentando sentimenti di rancore e dissociazione sugli strascichi del ’68, l’agguato al convoglio del presidente della Dc rappresentò forse la prima vera azione coordinata dalle Br come una sfida aperta allo Stato, nel segno della violenza più feroce.

E’ la mattina del 16 marzo. In Parlamento si stanno riunendo tutte le forze politiche per votare la fiducia al nuovo governo guidato da Giulio Andreotti. Poco prima delle 9.00, Moro esce dalla sua abitazione, in viale del Forte Trionfale, e sale su una Fiat 130 blu. Alla guida c’è l’appuntato Domenico Ricci; accanto al presidente della Dc prende posto il maresciallo Oreste Leonardi, capo scorta. La 130 è seguita da un’Alfetta bianca con gli altri uomini della scorta: il vice brigadiere Francesco Zizzi e gli agenti di polizia Giulio Rivera e Raffaele Iozzino. Quando le vetture si trovano all’incrocio tra via Fani e via Stresa scatta l’agguato: le due auto vengono intrappolate da alcune Fiat 128 parcheggiate in modo strategico. Poi il conflitto a fuoco. Da dietro le siepi sbuca un commando armato di mitragliatrici composto da quattro brigatisti: Valerio Morucci, Raffaele Fiore, Prospero Gallinari e Franco Bonisoli. Addosso hanno le uniformi del personale di volo dell’Alitalia. Ma le mitragliatrici si inceppano e gli uomini della scorta hanno il tempo di reagire. Pochi istanti che non servono a evitare il massacro. In tutto vengono esplosi 91 colpi, tutti gli agenti della scorta muoiono. Terminata la sparatoria, Fiore fa scendere Moro dalla Fiat 130 e lo fa entrare in una Fiat 132 blu. I brigatisti si allontanano lungo via Stresa. Il tutto dura appena tre minuti: dalle 9:02 alle 9:05.

La notizia si diffonde rapidamente in tutta Italia. Alle 10:10 le Br, con una telefonata all’Ansa, rivendicano il rapimento: “Questa mattina abbiamo sequestrato il presidente della Democrazia cristiana, Moro, ed eliminato la sua guardia del corpo, teste di cuoio di Cossiga. Seguirà comunicato. Firmato Brigate Rosse”. I tre maggiori sindacati italiani proclamano uno sciopero generale; a Roma i negozi abbassano le saracinesche; in tutte le scuole del Paese gli studenti si riuniscono riunendosi in assemblee spontanee. Ma dove è stato portato Moro? Esistono diverse ipotesi, ciascuna riguardante luoghi e abitazioni diverse, ma sempre a Roma. Tuttavia, secondo quanto emerso dai processi ai brigatisti, la prigione nella quale viene rinchiuso il presidente della Dc è situata in un appartamento di via Camillo Montalcini 8.

Durante i 55 giorni di prigionia, l’onorevole Moro scrive più di ottanta lettereindirizzate alla famiglia e agli esponenti del suo partito. Di queste missive solo alcune giungono a destinazione; quelle mai recapitate saranno ritrovate nel covodelle Br di via Monte Nevoso, a Milano. In questi testi, i cui contenuti, secondo le indagini, sono estorti e influenzati dalle poche e frammentarie notizie che i carcerieri riferiscono a Moro, il presidente della Dc tenta di aprire una trattativaper il suo rilascio con i colleghi del partito e con le massime cariche dello Stato. Tuttavia, la maggior parte dei politici italiani dell’epoca ritiene quelle lettere controllate, se non addirittura dettate dai brigatisti.

Inizialmente i terroristi non chiedono nessun riscatto, tanto meno uno scambio. Solo nel comunicato numero otto, il penultimo dei comunicati che le Br fanno ritrovare per spiegare i motivi del sequestro e lo svolgimento del “processo del popolo” al presidente della Dc, i brigatisti chiedono esplicitamente uno scambio: la vita di Moro per la libertà di alcuni terroristi incarcerati. E’ il 24 aprile. Pochi giorni prima, Paolo VI, amico personale di Aldo Moro e della sua famiglia, tramite una lettera datata 21 dello stesso mese, aveva rivolto un appello ai brigatisti: “Vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità”.

Il mondo della politica di spezza in due: da una parte ci sono Democrazia Cristiana, Partito Socialista Democratico Italiano, Partito Liberale Italiano e Partito Repubblicano, che rifiutano qualsiasi ipotesi di trattativa; dall’altra c’è Bettino Craxi, i radicali, la sinistra non comunista e i cattolici progressisti come Raniero La Valle. Un fermo ‘no’ alla trattativa arriva dal Partito Comunista Italiano e dal Movimento Sociale Italiano. Nonostante la frattura, all’interno dei due schieramenti nascono posizioni in dissenso con la linea ufficiale. Parte della Dc è favorevole al dialogo. Tra i socialisti, Sandro Pertini dichiara di non voler assistere al funerale di Moro ma neppure a quello della Repubblica. A prevalere è la seconda linea.

Ben diversa è la posizione del Vaticano. L’amicizia che lega Papa Montini ad Aldo Moro spinge il Pontefice a intavolare una complessa e riservata trattativa per giungere alla sua liberazione. Paolo VI prende contatti con il cappellano del carcere di San Vittore a Milano: don Cesare Curioni avrebbe dovuto individuare un canale utile, interno o esterno al mondo delle carceri in grado di favorire il pagamento di un riscatto in cambio della libertà di Moro.

Dell’iniziativa del Papa vengono messi al corrente il segretario della Dc, Benigno Zaccagnini e il segretario particolare di Enrico Berlinguer, Tonino Tatò. Secondo le testimonianze dei collaboratori di Paolo VI, Curioni percorrere due strade. Contatta l’avvocato difensore dei brigatisti, Edoardo Di Giovanni, al quale chiede, come confermato poi dallo stesso Di Giovanni, se la Chiesa potesse fare qualcosa per salvare Moro, avvicinando qualcuno dei suoi assistiti. In parallelo, il prete contattata un sedicente brigatista con il quale riesce ad ottenere diversi incontri a Napoli. Secondo il segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, e il suo collaboratore, padre Carlo Cremona, questa trattativa inizia subito dopo il sequestro Moro ed entra nel vivo dopo il messaggio del Pontefice ai brigatisti.

L’8 maggio gli assistenti più stretti di Montini vengono messi in allarme: da un momento all’altro avrebbero potuto ricevere una telefonata con la quale si annuncia l’accettazione della proposta da parte delle Br e l’avvio delle procedure per la liberazione dell’ostaggio. Una ventata di ottimismo entra nei Sacri Palazzi, fino a raggiungere le stanze del governo italiano. Il ministro dell’Interno,Francesco Cossiga, fa sapere che, la sera dell’8 maggio Andreotti, dopo avere saputo che il Vaticano era riuscito stabilito un contatto, “se ne uscì con uno: ‘Speriamo bene'”. L’attesa si protrae fino alla mattinata del 9 maggio, quando una telefonata anonima avvisa la segreteria del Papa del fallimento della trattativa. Curioni, in un’intervista rilasciata nel 2003, spiega come andarono i fatti: “Il misterioso interlocutore, di cui non ho mai conosciuto il nome, mi chiamò da Firenze dicendomi: ‘E’ saltato tutto, devo lasciare Roma’. I suoi compagni avevano minacciato di ucciderlo”. L’analisi che viene fatta Oltretevere è la seguente: la proposta di rilascio dietro pagamento fu rigettata dall’ala più dura delle Br. Il “Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo”, scrive Moro nell’ultima lettera, una missiva che manca però di foglio e della firma. Questo conferma che le notizie ricevute dal presidente della Dc fossero manipolate.

E’ il 9 maggio, quando Moro viene assassinato. Ad ucciderlo è Mario Moretti. Al prigioniero viene detto di essere stato graziato. Una bugia che i brigatisti raccontano per non farlo soffrire. Viene quindi fatto entrare nel portabagagli di una Renault 4 rossa e coperto con un lenzuolo, anch’esso rosso. Moretti spara alcuni colpi con una pistola Walther Ppk calibro 9. Ma la pistola si inceppa e il brigatista è costretto a proseguire l’esecuzione con una mitragliatrice Samopal Vzor.61 (nota come Skorpion). Una raffica di 11 colpi perfora i polmoni dell’ostaggio, uccidendolo. L’auto con il corpo di Moro viene portata in via Michelangelo Caetani, una traversa di via delle Botteghe Oscure, a poca distanza dalla sede della Dc e del Pci. Verso le 12:30 Valerio Morucci telefona al professor Francesco Tritto, uno degli assistenti di Moro: “Adempiamo alle ultime volontà del presidente, comunicando alla famiglia dove trovare il corpo dell’onorevole Aldo Moro”. La telefonata viene intercettata e sul posto arrivano per prime le forze dell’ordine. Oggi, in via Caetani, una lapide ricorda quel tragico giorno.

Cossiga si dimette da Ministro dell’Interno, mentre la famiglia del presidente si chiude nel silenzio, rifiutando qualsiasi “manifestazione pubblica o cerimonia o discorso: nessun lutto nazionale, né funerali di Stato o medaglia alla memoria. Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia”.

Lo Stato italiano, tuttavia, rende omaggio al presidente della Dc con un’imponente cerimonia celebrata nella basilica di San Giovanni in Laterano, la Cattedrale di Roma. La piazza antistante la basilica è gremita di persone. Nel tempio, le più alte cariche della Repubblica. Al rito assiste anche Paolo VI. Per la prima volta dopo secoli, un Papa assiste ad un rito funebre fuori dal Vaticano. L’omelia che pronuncia è un profondo grido di dolore che sale al Cielo: “Chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte? Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico; ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita. Per lui, per lui”. Parole pronunciate con una voce tremula, a tratti rotta dall’emozione di un Papa che morirà il 6 agosto di quell’anno a Castel Gandolfo, segnato anche da questa vicenda.

Sotto l’altare uno spazio vuoto. Il feretro non c’è. Moro viene seppellito nel piccolo cimitero di Torrita Tiberina, un borgo alle porte di Roma nel pomeriggio del 10 maggio, dopo una breve funzione celebrata dal parroco locale nella chiesa di S. Tommaso. Due cerimonie, in netta opposizione tra loro, alle quali se ne aggiunge una terza, di carattere pubblico, voluto dalla famiglia. Il 16 maggio la famiglia di Moro promuove, sempre a Roma, una messa presso la basilica del Sacro Cuore di Cristo Re. La moglie del presidente Moro, Eleonora Chiavarelli, dal pulpito, chiede alla nazione di pregare “per i mandanti, gli esecutori e i fiancheggiatori di questo orribile delitto; per quelli che per gelosia, per viltà, per paura, per stupidità hanno ratificato la condanna a morte di un innocente; per me e i miei figli perchéil senso di disperazione e di rabbia che ora proviamo si tramuti in lacrime di perdono”. La cerimonia si svolge in un’atmosfera particolare: alle preghiere si alternano canti, nuovi e vecchi.

Qualcuno, alla soglia del quarantennale della strage di via Fani, ha ritenuto opportuno disonorare la memoria di quegli agenti che scortavano il presidente Moro, imbrattandone la targa commemorativa con parole e simboli infamanti: un gesto spregevole che, comunque, nulla toglie all’eroico sacrificio di quegli uomini, tenuto in vita dalla storia e dalla memoria collettiva del Paese.

Fonte: InTerris.it

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