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E adesso, per favore, rispettiamo il dolore della mamma di Latina

Ma davvero avevamo bisogno di indagare lo sguardo di Antonietta Gargiulo per immedesimarci del suo dramma? Tocca a noi, operatori dell’informazione e pubblico insieme, decidere dov’è la soglia della pietas e del silenzio. E dire no grazie alla sofferenza in pasto al pubblico.

Adesso che, almeno noi (Antonietta Gargiulo non potrà), ci siamo messi l’animo in pace. Adesso che abbiamo letto paginate di giornali e ascoltato minuti televisivi di psicologi, amici, benefattori dell’ultima ora che hanno raccontato ogni particolare disponibile (per fortuna non troppi). Adesso che tutti siamo stati introdotti, dal buco della serratura del racconto, nella stanza della terapia intensiva di Antonietta Gargiulo. Adesso che sappiamo che si è risvegliata e che le hanno detto delle sue bambine che non ci sono più, per favore usciamo in punta di piedi dalla vita di questa povera donna. Usciamone per rispetto, perché ci siamo già entrati anche troppo.

Ma davvero avevamo bisogno di sapere i particolari della sua reazione, di indagare il suo sguardo, nel momento più tragico, ma davvero avevamo bisogno che qualcuno ci raccontasse se fosse scesa o non scesa una lacrima? Ma davvero abbiamo bisogno di essere affacciati sull’abisso del dolore di una madre nel momento in cui scopre che l’uomo che aveva amato ha cercato di uccidere lei e dopo, prima di togliersi la vita, ha ucciso le loro bambine? Non ci basta sforzarci di immaginarlo, come giornalisti e come lettori?

Qual è il momento in cui, finito di sguazzare nei pettegolezzi sulle vite dei potenti, abbiamo cominciato a speculare sul dolore delle persone qualunque, che in cronaca finiscono per disgrazia? Quand’è che abbiamo cominciato a domandare “Come si sente?” in diretta alla vittima di una tragedia, perdendo la misura di quanto sia inutilmente cretina una domanda simile? Gli storici dei media dicono che la deriva sia cominciata quarant’anni fa con Alfredino nel pozzo, quando ancora non c’erano leggi a tutelare i minori. Forse è vero, o forse abbiamo cominciato prima e mai finito perché la curiosità morbosa è parte di noi. Non la parte migliore.

I media, in crisi di ascolti, di copie, di consenso, sono esposti alla deriva di una concorrenza al ribasso – ci siamo tutti dentro, inutile negarlo -, c’è il rischio di non fermarla più. Ci facciamo scudo del dovere e del diritto di cronaca, ma non c’è nessun dovere nostro e nessun diritto altrui nella morbosità. C’è un mercato, con una domanda e un’offerta. Possiamo contrastarlo solo noi, operatori dell’informazione e pubblico insieme, decidendo qual è la soglia della pietas, dovuta ai vivi e ai morti, che ci sentiamo di rispettare. Siamo noi, insieme, a dover dire: no grazie, basta, qui c’è il limite del silenzio e per chi crede di una preghiera.

In fondo non è così difficile, basterebbe che ci domandassimo come ci sentiremmo se fossimo noi al posto di Antonietta in un momento così e se, immesimandoci in lei, saremmo ancora disposti a sostenere che il diritto degli sconosciuti di sapere sia più forte del suo diritto a vivere il dramma lontano da sguardi indiscreti. Ci diranno che se non lo raccontiamo noi lo faranno altri, che chi vuole sapere andrà a leggere e a guardare altrove. Vero. Anche per questo la deriva non la fermeremo né con le leggi né con i codici deontologici, può guidarci solo – come cronisti e come spettatori – la legge morale dentro di noi. Non è un bavaglio, è umanità.

Anche perché c’è tanto altro lavoro importante da fare a partire da storie come queste: riguarda l’informazione e la sua funzione che è lavorare per capire perché certe tragedie familiari accadono e darsi da fare per smontare la mentalità che, confondendo l’amore con il possesso, sta alla base di tanta violenza. E, dopo, lavorare ancora: per trovare e diffondere le buone pratiche utili a prevenirla.

Fonte:Elisa Chiari | FamigliaCristiana.it

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