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La rabbia del vento: un silenzio contaminato dal caso uranio al Sahel

Ad Arlit la gente beve acqua radioattiva. Il titolo dell’articolo su “Le Monde” non fa che confermare quanto denunciato a suo tempo dalla società civile locale. La ditta francese Areva da oltre quarant’anni estrae l’uranio in questa zona al confine con l’Algeria. Amina Weira, intervistata dal giornale francese, è nigerina, nata e vissuta per anni sul posto. Ricorda che da bambina, ancora senza capire, notava l’esistenza di molti problemi di salute. Difficoltà respiratorie, tumori, neonati deformi… si diceva come dappertutto che “quello era il destino”, che era Dio a dare un figlio così. Ma erano soprattutto i più anziani ad accusare malesseri, paralisi o malattie strane. Amina ha così deciso di fare un documentario, la cui diffusione è vietata in Niger, nel quale mostra la polvere radioattiva di Arlit, l’acqua avvelenata che si beve, le case costruite con materiale di riporto delle miniere, il cibo contaminato e gli animali che muoiono. La rabbia del vento è il titolo del film, presentato a Dakar, in Senegal, e vietato in patria.
Dal 27 gennaio di quest’anno il nome Areva si è mutato in Orano. Questo nome, che deriva dal latino uranus, fa anche eco a Ouranos, il dio greco del cielo che diventa appunto Uranus nella mitologia romana. È lo stesso che dà il nome al pianeta e poi dirottato al minerale dell’atomica. La lettera “O” indica il ciclo del combustibile nucleare che permette di trasformare il materiale in yellow cake, il dolce giallo, che col nero è il colore di Orano. Accade ancora il miracolo: l’uranio si trasforma in oro per qualcuno e in morte per gli altri che non entrano nel conto, ecco il senso della striscia nera nello stemma della ditta francese. La rabbia del vento è militarizzata come la zona di Arlit dove alcuni tecnici erano stati rapiti e poi rilasciati dopo il pagamento del riscatto. Hanno comprato il silenzio della città miniera in cambio di case, scuole, dispensario e una strada che usano i camion per trasportare il minerale trattato fino al mare. È un silenzio contaminato dagli interessi della potenza coloniale che compra la morte dei poveri con la complicità dei politici.
Sono gli stessi che ricompensano coloro che questa domenica marceranno per sostenere la politica economica del governo. La “radio del marciapiede” insinua che oltre 700 milioni in moneta locale (oltre un milione di euro) stanno distribuendosi per “facilitare” la partecipazione filo-governativa alternativa a quella manifestazione dell’opposizione di domenica scorsa. Di domenica in domenica e forse con l’ingresso in campo delle associazioni islamiche, forse anch’esse oggetto di compravendita da parte di questo governo, già tacciato di “Charlie” (Hebdo), con riferimento ai fatti del settimanale satirico nel 2015. La rabbia del vento soffia sull’università statale di Niamey in fase di demolizione: stavolta a scioperare solo i docenti e i ricercatori di stipendio. Passa all’ospedale nazionale dove si muore davanti alla porta delle urgenze se prima non si paga la ricetta per acquistare quanto si trova sottobanco, ma sotto gli occhi di tutti. Il vento di rabbia scorre tra le regioni dove i granai sono vuoti e si dichiara lo stato di carestia. Peraltro il programma del “rinascimento”, ufficialista, sostiene che tutto va bene e chi afferma il contrario non ha capito la domanda.
La rabbia del vento soffia sulla vita di Monica, che vorrebbe tornare in Costa d’Avorio, e delle due amiche del Camerun che invece si fermano in città. Sono scampate dall’inferno della Libia, dell’Algeria e del vento, rabbioso, del deserto. Chi voleva andare in Spagna, chi in Italia e chi, invece, dove ancora non sa. Arrestate, detenute, vendute, comprate e stuprate varie volte. Teresa e Anna non credono nel loro Paese e preferiscono la polvere del Niger alla possibile guerra civile della loro patria. Domandano una camera, da nutrirsi, curarsi e di cominciare un lavoro qualsiasi per vivere ancora. Monica si trova all’ottavo mese di gravidanza e per questo desidera tornare in fretta da sua sorella di cui ha dimenticato il numero di telefono. Ha scelto di chiamare Angela la figlia che verrà, col vento.

Fonte: M Armanino | Avvenire.it

 

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