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Papa Francesco, la filosofia della concretezza

Pubblicati in Francia gli atti di un dibattito all’Institut Catholique in cui è messo a confronto il pensiero di Bergoglio con quello di grandi pensatori del passato e intellettuali contemporanei.

Ma davvero Papa Francesco può essere annoverato tra i filosofi contemporanei? L’asserzione, di primo acchito, pare un po’ forzata e lascia un po’ stupiti. Il titolo di ‘filosofo’ tutt’al più sembrerebbe appropriato per Giovanni Paolo II, così come quello di ‘teologo’ parrebbe andare di diritto a Benedetto XVI. Se c’è un’immagine di Bergoglio che, almeno mediaticamente, prevale, è senza dubbio quella del pastore, dell’uomo d’azione, del diplomatico, del leader, non quella del pensatore o dell’intellettuale. Eppure… Se ci si sbagliasse? Se avesse ragione chi afferma che anche l’attuale pontefice è un filosofo e non solo perché è un saggio che sa fare uso del discernimento e della correzione fraterna, ma anche un pensatore riformista che vede con chiarezza dove andare? Un pensatore originale secondo il quale non c’è azione senza pensiero, anzi l’azione è essa stessa una declinazione del pensiero? A ricordare bene, in qualche occasione, è stato lo stesso pontefice a indicare autori che lo hanno influenzato. Da studente al Seminario di Villa Devoto a Buenos Aires, o durante il noviziato nella Compagnia di Gesù, è attingendo a fonti latinoamericane, ma soprattutto europee che si è formata una parte della sua personalità e del suo pensiero. Sono quelli gli anni in cui ha scoperto il romanziere Joseph Malègue, lo storico Michel de Certeau, lo studioso Gaston Fessard, il teologo Yves Congar e persino lo scrittore Léon Bloy, citato nel primo discorso nella Sistina. Più tardi sarebbero arrivati Guardini o Alberto Methol Ferré. Ora, in ogni caso, le comunicazioni di un convegno sulla ‘filosofia di Francesco’, svoltosi all’Institut Catholique di Parigi nel 2016 per confrontare il pensiero bergogliano con quello di filosofi del passato o contemporanei, sono raccolte nel libro François philosophe edito in Francia da Salvator sotto la direzione di Emmanuele Falque e Laura Solignac (pagine 186, euro 20).

I diversi contributi permettono al lettore di saperne un po’ di più circa antecedenti e interessi mai trascurati. E, di certo, aiutano a studiare un pontefice che a modo suo sviluppa una filosofia della complessità, in guardia da approcci al reale che qualificano – per così dire – come nero o bianco, ciò che invece è grigio: cioè il colore di quella penombra che chiede di scrutare, invitando a sviluppare con lui quelle capacità di attenzione e riconoscimento, vera ricchezza di ogni esistenza, secondo quello che scrive Paul Ricoeur nel suo saggio sull’etica della reciprocità come un altro ( Jaca Book). Se filosofo possiamo definirlo, ecco che Francesco ci pare prima di tutto un teorico del dialogo, che non teme di mettersi alla prova. Consapevole che nella continua accelerazione della conoscenza scientifica, lo stesso ‘sapere filosofico’ diventa sempre più un ‘sapere di non sapere’, e chi ne esercita una qualche titolarità può vantare compiti tutt’al più da vigile sentinella (cosa che fa nel segno del motto di Bernardo di Chiaravalle caro a Giovanni XXIII «omnia videre, pauca dissimulare, multa corrigere » di Bernardo di Chiaravalle). Latino a parte, i rimandi contenuti in questo François philosophe sono innanzitutto ad autori francesi. Philippe Bordeyne fa luce sul rapporto del pensiero bergogliano con il lavoro di Ricoeur, citato nella Laudato si’.

Uomo d’azione impegnato nell’idea di un rapporto concreto, ansioso di scoprire un’immagine di Cristo nel volto di ogni uomo, non credenti compresi, Papa Francesco è filosofo nel suo scommettere su una teoria e una prassi della relazione concreta, investendo sull’uomo ‘capace’ nel senso dato da Ricoeur a questa parola. E, vivendo in un mondo in cui l’angoscia ha sostituito la fede, Bergoglio ha trovato anche nelle opere di Maurice Blondel (cui lo lega una parentela intellettuale nel conoscere sapienziale) e Miguel de Unamuno (di cui non disconosce l’agonica comprensione del cristianesimo) le spinte a invertire questa tendenza. Sovente frainteso, in particolare dai cattolici, prova invece a mettere la fede al posto dell’angoscia suggerendo all’uomo una «ermeneutica del sé» disancorata da precedenti esperienziali di «identità personale», considerando ciascuno in grado di creare e contemplare, di ripartire ex novo. Così nutrita degli apporti di san Bonaventura e sant’Ignazio, Ricoeur e Blondel, de Unamuno e Pareyson (col quale fa la scelta di una «verità in atto» optando però per il discernimento invece che per l’ermeneutica pareysoniana), la sua riflessione ‘filosofica’ accompagna l’odierno cattolicesimo e non solo, come sottolineano i contributi di quest’opera, che – oltre a quelli dei due direttori e di Philippe Bordeyne, Juan Carlos Scannone, Giovanni Ferretti, Miguel Garcia-Baro vede le conclusioni dell’arcivescovo di Poitiers, Pascal Wintzer. Resta un po’ la sensazione – da noi l’ha fatto notare Massimo Borghesi nella sua recente ‘biografia intellettuale'( Jaca Book) – che da tanti maestri Bergoglio abbia tratto ciò che gli serviva più che assimilarne l’opera intera. Detto ciò (e preso atto di antinomie e contraddizioni ), si può qui convenire su un Francesco, filosofo del dialogo, ma forse prima ancora filosofo del linguaggio interessato a convertire in storia, con parole e gesti, ciò che ancora continua a restarne ai margini e lontano.

Fonte: Marco Roncalli | Avvenire.it

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