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LETTURE/ Saint-Exupéry, non smettere mai di desiderare

Una vita come un romanzo, una necessità infinita di desiderio: Antoine de Saint-Exupéry ha anticipato le conclusioni della psicoterapia moderna.

Nessuna storia finisce mai, dicono i fiori del lino di una favola di Andersen, ed è ciò che si pensa rileggendo la favola senza fine del Piccolo Principe, il capolavoro che Antoine de Saint-Exupéry pubblicò nel 1943 in piena guerra, tra spericolate imprese aeree e proverbiali incidenti, che ne minarono gravemente il fisico. Ce ne ridà lo spunto la recente riedizione approntata dal Banco Popolare, con traduzione e simpatica introduzione di Marina Migliavacca Marazza.

Spesso, riproponendo questo classico della letteratura infantile, si parla, più o meno a proposito, di “messaggi universali”, di “valori”, quali l’amicizia e la solidarietà. Tutto vero, beninteso, ma il libro di Saint-Exupéry, sempre giovane, salta con leggerezza incantevole ogni trabocchetto di “messaggi” e “valori”, per lanciarsi nello splendore delle stelle, come faceva il suo autore, il quale non smise di volare anche quando gli fu consigliato di farlo.

La stessa vita di Saint-Exupéry ha i colori di un romanzo. Pilota appassionato ma imperdonabilmente distratto, era incorso in un incidente dopo l’altro, ai quali era miracolosamente sopravvissuto. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale era stato dichiarato inidoneo al volo: perfino l’insediamento nella cabina dell’aereo gli costava uno sforzo penoso. Ma niente poteva fermare la sua passione. Riuscì così, non si sa come, a farsi assegnare dei compiti di ricognizione aerea, ma durante un atterraggio dimenticò di far uscire uno dei carrelli dell’aereo, danneggiando gravemente il velivolo. Venne così confinato nelle riserve e sprofondò nella depressione. L’unico modo per guarire era riprendere a volare. I superiori gli affidarono allora delle missioni di ricognizione fotografica: Antoine era raggiante e riprese il suo sorriso da bambino. Gliene furono accordate cinque, ma ne aveva effettuate già otto quando partì da Bastia, in Corsica, per la nona ed ultima missione.

Le ultime, commoventi fotografie ritraggono il suo amato Lockheed P38 Lightning che si alza in volo verso Grenoble, il 31 luglio 1944. In un’altra foto lo vediamo, indossato il casco, pronto per la partenza. Dimostrava ben di più dei suoi 44 anni; aveva una spalla anchilosata, necessitava di aiuto anche per indossare l’uniforme. La testa è ripiegata, gli occhi socchiusi. Quello che successe poi è un mistero: l’aereo fu colpito da una pattuglia tedesca; abbattuto, si inabissò nel golfo di Marsiglia. Nel 2004 sono stati recuperati i rottami dell’aereo, a sessanta metri di profondità, ma il corpo non è mai stato ritrovato.

Ci piace immaginare che fosse stato preso da un suo gioco, come uno di quelli che inventava da bambino, quando viveva immerso nella grande dimora di campagna vicino a Lione, nel parco di abeti e tigli. Leggendo Il Piccolo Principe, crediamo che l’autore non si sia identificato nell’aviatore, costretto ad atterrare nel deserto, ma nel ragazzino aristocratico e sognatore, simbolo del bambino che rimane in noi anche nell’età adulta. Del libro, tradotto in tutte le lingue e caro a milioni di lettori in tutto il mondo, oggi resta, più che tante frasi divenute aforismi fin troppo consunti, la ferma rivendicazione dell’importanza dei legami per la crescita della persona. E’ quanto viene detto, nel memorabile capitolo XXI, dalla volpe al piccolo protagonista: “se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro”. Addomesticare: etimologicamente da domus, condurre a casa, “creare dei legami”, come afferma il romanzo. La verità poetica del Piccolo Principe non ha fatto altro che anticipare le conclusioni della psicoterapia contemporanea. E’ sufficiente pensare al best seller di Benasayag e Schmit, L’epoca delle passioni tristi, o più recentemente alle tesi sostenute da Massimo Recalcati.

I nostri giovani sembrano affetti da “autismo informatico” e il futuro non viene più percepito come promessa, ma come minaccia. Fondamentale allora è riconoscere la centralità del desiderio, da non confondersi con la “voglia”, che ne è solo una maschera deforme. Benasayag e Schmit giungono a proporre una terapia definita “clinica del legame”, Recalcati insiste da anni sulla necessità di “educare il desiderio”. Anche Saint-Exupéry non smise mai di desiderare, come scrisse in Cittadella, raccolta di note e pensieri pubblicata nel 1948: “Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna e dividere i compiti e impartire ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare vasto e infinito”.

Fonte: Carlo Bortolozzo | Il Sussidiario.net

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