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L’intervento. Zavoli: questo mondo ha bisogno di essere cambiato e ci chiede di farlo

Stiamo misurandoci, con diverse opinioni, sui fattori cruciali che tengono in vita, e minacciano di aggravarsi, le temperie in atto nel lontano Oriente, dove è riapparsa la debolezza di non riuscire a respingere la totalità di un orrore che l’umanità sta vivendo con una febbrile alternanza di ipotesi. Porre domande a chi più sa è un modo per inoltrarsi efficacemente nella conoscenza dei problemi. Non sempre, però, è un percorso agevole: alcune domande – tra queste alcune cruciali – ritornano di secolo in secolo mantenendosi impervie. Le questioni, infatti, continuano a nascere dal contrapporsi a un insieme complesso di interrogativi.
I trionfi della scienza e della tecnica, con la caduta dei Muri, contribuirono a far nascere l’idea che potessimo affidarci alla prospettiva di un processo da governare senza sconvolgimenti drammatici. Ma 1’11 settembre del 2001, con il rogo delle Torri Gemelle, ha costretto tutti a capire che nulla, ormai, sarebbe stato sicuro per sempre.

La storia ci ha colto, imprevedibile e feroce, costringendoci a fare il punto, a tracciare mappe e rotte. Nascono così le domande che aspirano a essere puntuali e rigorose sempre più frequenti quando è così diffuso lo scontro con la realtà, e si è tentati anche di aggirarla e ridurla. Oggi, per i grandi accumuli delle questioni irrisolte nel passato, e insorgenti dal presente, stiamo vivendo un passaggio cruciale della nostra complessa vicenda umana. L’abbiamo ereditata da un secolo definito breve e feroce, ai cui piedi, con la caduta dei suoi totem reali e simbolici, troviamo le macerie di due immani promesse: il trionfo della giustizia, affidato dalla Storia alle nostre azioni, e l’altro, quello dell’amore, eletto al di sopra di ogni altra virtù e consegnato al più equo dei poteri, lo spirito. Due indicibili prove, sebbene avessimo alle spalle una guerra avvezza a milioni di croci, presero il nome di due lampi, Hiroshima e Nagasaki, il più tragico e severo monito di questa modernità. Scienza e umanesimo, ragione e fede, in definitiva la Storia e Dio, hanno preso a misurarsi con un uomo indiviso, cresciuto al di là di ogni ipotizzabile arditezza, ma destinato a soccombere quando sulla solidarietà prevaleva l’egoismo, contro la pace vincevano le divisioni e il sangue, e la giustizia finiva spesso sconfitta, prima ancora della libertà.

Ai problemi ricevuti dal passato – guerre, razzismi, dittature – si aggiungevano terrorismo, carestie, migrazioni
; alla ferocia della Shoa succedeva la scoperta del genoma; ai raid aerei sulle risaie del sud-est asiatico si accompagnava il “viaggio verso la luna”; ai conflitti per un tratto di confine, in una savana, irrompeva la libera navigazione elettronica di Internet; e accanto ai saperi conquistati i valori manomessi, agli indomabili pregiudizi le liberazioni raggiunte: economiche e sociali, culturali e ideali. Tutto strappato, e ancora conteso, una temeraria sorta di eclisse pareva gravare sulle giurisdizioni di Dio e della Storia, l’una e l’altra assediate dalla comparsa di realtà non più strettamente riferibili ai loro distinti domini. Scienza e umanesimo, persino ragione e fede, infatti, si dividono ancora sui grandi principi, la sconfitta delle ideologie libera le dinamiche della politica, lo stesso concetto di destra e sinistra subisce molte varianti. Ai criteri di appartenenza e di militanza si affianca la richiesta del pluralismo come bene comune; alle gelosie identitarie subentra il concetto di coalizione; alle intolleranze religiose si pone l’alternativa dell’ecumenismo, a quelle etniche si oppongono i diritti umani. Si ritorna alla lezione millenaria dell’etica per definire e regolare la disputa tra il dovere di cercare e di agire, da una parte, e quello, dall’altra, di scegliere e rifiutare, facendo valere il principio secondo cui tutto ciò che è possibile non è sempre, per ciò stesso, anche lecito. Si ripresenta il confronto tra Bene e Male, da sottrarre a ogni genere di fondamentalismo.

Tale preminente “questione” aveva e ha sullo sfondo la vita che si organizza tra le pieghe della quotidianità, cioè il suo farsi comportamento, usanza e costume; fino a rispecchiare la vita reale di una società. Di qui il nostro indugiare, ogni tanto, anche sugli aspetti minori del vivere singolo e collettivo per confrontare idee ed esperienze, lontane e vicine, tra loro, ben più del tempo che le divide. Chiedendo alla memoria di assisterci – non di rado dovrà ammonirci – per il presente e il futuro. Ciascuno alle prese con la più reputata delle saggezze, quella del dubbio; l’ultima delle quali, la più ardita, si riassume in questa drammatica domanda: se l’uomo fallisse, il fallimento sarebbe anche della Storia, e persino di Dio? Non avrebbe vinto l’eclissi? Non è dunque per amore di tesi che non può esaurirsi nell’11 settembre del 2001. Il numero degli attentati nel mondo – dopo l’inizio della “lotta al terrorismo” – è aumentato del 400%; un piccolo Paese, la Corea del Nord, ha ingrandito l’arsenale nucleare e sperimentato la bomba atomica; altri Paesi coltivano l’idea di poter fare altrettanto. Abbiamo saccheggiato le risorse del pianeta, e compromesso il clima, senza porre rimedio alle piaghe che tormentano l’umanità: si combatte, si tortura, si muore di fame e di sete, il pregiudizio condanna milioni di donne, c’è ancora chi è ridotto in schiavitù, dignità e diritti sono calpestati, moltitudini di migranti si mettono in mare, a rischio della vita.

Scienza e tecnica pongono una quantità di problemi etici che fino a ieri non conoscevamo, o rimanevano insoluti. Dio stesso è chiamato in causa da chi – su vari fronti antropologici e culturali, con diverse fedi, e in base a differenti ideologie – afferma di agire in suo nome. “Non si può chiedere alla Chiesa di tacere”, si dice da una parte; e, dall’altra, “ma uno Stato non si identifica con nessun credo”. E’ la storia dei gay e delle “coppie di fatto”: “Una prova di civiltà”, da una parte, un “attacco alla famiglia”, dall’altra. Ritorna il problema dei confini: i cattolici più aperti dichiarano che sono stati respinti “il fondamentalismo laico e l’integralismo radicale”, ma le posizioni istituzionali sono più prudenti. Si ripropongono, insomma, scelte espresse nei tanti interrogativi, grandi e piccoli, che questo seminario ha messo in fila secondo l’ordine e l’approssimazione di un viaggio testimoniale; cercando le espressioni più gravi, ma anche i minimi e più sottesi segnali del cambiamento; e richiamando anche le circostanze personali, cioè seguendo una scia rimasta nei diari perché, ripercorsi, potessero chiamare a testimone la memoria di molte lezioni lontane, altrimenti perdute. Può darsi che il porre domande, per provocare risposte, sia rimasto il modo migliore di conoscere, o intanto di conoscersi. Interrogarsi e rispondersi significa far posto alle cose che restano da discutere, da capire, soprattutto per i giovani, i più privi di memoria, vissuti fino a ieri in una sorta di irrilevanza sociale.

Oggi sappiamo che ondate di religiosità, e i contemporanei flussi di secolarizzazione, hanno portato con sé anche pregiudizi, intolleranze e fanatismi, non di rado sfruttando il nome di Dio per incitare alla violenza e all’odio. L’immagine di una eclissi è tornata, così, nelle parole simboliche; e persino temerarie, di Benedetto XVI: “Dio non si rivela più, sembra nascondersi nel suo cielo, quasi disgustato dalle azioni dell’umanità”. Ma la chiave del rapporto con Dio, cioè la scelta di illuminarne l’immagine o di oscurarla, è nella condotta dell’uomo, non fuori di lui. Non c’è eclissi di Dio se non nella coscienza dell’uomo. Né può darsi neppure come metafora, un’eclissi della Storia, ma soltanto dell’uomo nella Storia, quando per ignavia, stanchezza e delusione si illudesse di potersene separare con il silenzio sul passato e la rinuncia ad agire per il futuro. Uno psicologo ha detto: “C’è nel mondo una solitudine che rischia di trasformarci in tanti attori di altrettanti, unici destini. Fate caso a quante realtà sfuggono le parole tratte da una complessità ancora ingovernata, per esempio la pace, in tre quarti del pianeta?”. Come si incontreranno i nuovi cataloghi dell’umanesimo e delle scienze? Così andando le cose, cambierà anche la natura della storia perché non troverà più le parole per dirci chi siamo stati e cosa abbiamo voluto, insieme, di volta in volta”.

Nelle società industrialmente sviluppate – pur considerando l’enorme accumulo delle informazioni e dei processi formativi legati allo sviluppo delle scienze umane e dei relativi strumenti di massa – era rimasta intatta la qualità della parola soprattutto nei linguaggi del solidarismo; la cui caratteristica principale deve poter conservare l’attitudine a comunicarci qualcosa di inedito, libero, arricchente. In un convegno veneziano di tanti anni fa Jean Baudrillard, con la verosimiglianza dei paradossi, disse che proprio i Paesi di antica civiltà non hanno più niente da dire soltanto con le parole semplicemente perché stentano a vivere un naturaliter universo della trascendenza; e, per effetto del grande lascito dei media, si affidano all’immanenza; ma va da sé che il “grande mare dell’oggettività”, come Io chiamava Italo Calvino – riduce sempre più i margini dell’approfondimento attraverso gli spazi della parola non solo comunicativa, ma anche e soprattutto chiarificatrice e creativa.

La rivoluzione, del resto, non è più il cambiamento, ma la velocità del cambiamento. Lo stesso concetto di tempo – nell’era elettronica – muta sempre più in fretta. E’ già in crisi l’idea stessa di attualità. Non a caso lo storico Biagio De Giovanni, anni fa, scrisse che, così andando le cose, presto avremmo fatto della cronaca la nostra storia. Non si possono negare le conseguenze che potrebbero determinarsi se il prodigioso sistema dell’intelligenza artificiale, e dei linguaggi comunicativi in essa impiegati, venisse utilizzata, a regime, per i controlli della legge, dell’attività culturale, dei canali dell’informazione, dei codici diplomatici, delle pratiche educative, dei processi di socializzazione, ecc. Dell’umanesimo, insomma. A patirne sarebbe una civiltà, che non è più un potere perché dev’esserne una sintesi, che impregni di sé ogni forma del vivere in circostanze e dimensioni racchiuse in un modo che segni la qualità del vivere anche etico e morale. Se l’uomo cresce in misura dei problemi che è chiamato a risolvere, perché non credere che, per ciò, debba essere il nostro “viaggio” a orientarci? Non può esservi ostacolo che induca a rinunciare a sé stessi.

Oggi, al pari di Ulisse, ognuno è in pericolo, ma Itaca non rappresenta la fine di un rischio, bensì la scelta concettuale del nostro sterminato cammino; magari ricominciando da una cattedra che ci aspetta nel cosmo dove – senza provocare alcuna emozione – si è recentemente scoperto che un gruppo di pianeti ha le stesse caratteristiche della Terra, per esempio l’acqua e l’ossigeno. Ma come rifare l’uomo se il big-bang ci ha assegnato uno degli universi con i quali, chissà tra quanto, dovremmo imparare, per esempio, che solo la pace può vincere la guerra. Un Verbo che si rivela facendosi parola ci ha portato sin qui con qualche miliardo d’anni di ritardo. Può darsi che qualcosa di mercuriale stia lavorando per togliere a queste parole l’ansia di non amarci abbastanza l’un l’altro per chiamarci “l’umanità”. Eppure va creduto che vincerà la vita, perché ne abbiamo il privilegio, non soltanto la facoltà. Potrebbe bastare, ogni giorno, quella parola corta, benefica, innocente: pace, che rimpiangiamo soprattutto nelle lapidi. Ma la vita ha già raggiunto millenarie vittorie, e continuerà lo stesso prodigio della nascita? E’ lecito chiederlo qui, agli studiosi di questo tempo. A quanti nuovi millenni spetterà il destino di ogni uomo, ogni razza, ogni popolo, ogni cultura, ogni interesse di vivere in comune una sorte e un ruolo, una speranza e una certezza, non solo per sopravvivere?

Siamo nati per essere l’umanità. Il compito cruciale dovrà essere quello di conciliare e sciogliere le diversità per unirle, spenderle nel nome delle condivisioni, non delle separatezze. Fu lo storico-strutturalista Braudel a inoltrarci, con largo anticipo, nella drammatica avvisaglia di un fenomeno che avrebbe investito la storia di un pontificato, quello di Francesco, da cui sarebbe scaturita una lettura del Vangelo che avrebbe offerto una visione nuova del ruolo della Chiesa in un tempo dedito a una delle più tremende violenze apparse sulla Terra. Mezzo secolo fa, Braudel si spinse a dire “Il destino dell’Africa è d’invadere l’Europa. E quello dell’Europa di accoglierlo”. L’importante non sarà più esagerare”. Ci aspetta forse una qualità comune, saper mettere insieme le parole! Che cosa potremmo sacrificare, se davvero dovessimo farlo, sull’altare della produzione e del mercato? Quale spazio riservare all’interiorità, e come riuscirvi in un mondo che fosse tutto regolato dal circuito chiuso lavoro-benessere-consumo? Quanta presenza garantire a quei modi di conoscere l’universo della bellezza, che genera l’arte, la letteratura, la poesia, il pensiero filosofico? Quanta alla religione e alla morale? E quanta all’urbanistica, alla psicologia, alle scienze sociali?

Di fronte a un “ingorgo di futuri possibili”, ha detto Habermas, aumenta il rischio di essere trascinati dagli eventi senza poter scegliere dove vogliamo andare. Sfidati da troppi domani, ogni decisione può celare altri dilemmi. Essi stanno, principalmente, nell’umanesimo che ci rappresentiamo: o si considera l’umanità il fine unico della creazione, oppure è un aspetto della materia, una forma di vita pari a tante altre, e allora bisogna accettare il principio dell’indifferenza della natura anche nei nostri confronti. Quanto a manifestare il senso della vita, non potranno essere solo le realtà biologiche, oggettive, irriducibili a speranza; esse esistono in sé, prive di intenzioni, senza bisogno di valori; la vita, invece, è qualcosa di rivoluzionario proprio nella sua capacità di ricerca e di conversione, di rifiuto e di scelta. Ma saremo “noi” a scegliere?

Grandi portenti, e molte inquietudini, continuano a segnare il futuro. A sentire chi se ne intende, una sorta di scetticismo nuovo sta insidiando il nostro pensiero. L’idea che le risorse del pianeta si esauriranno, che il disastro ecologico ci punirà, che il clima, il terremoto, gli uragani aumenteranno in progressione geometrica, tutto ciò va nutrendo le idee di tanta gente. Cosi, la domanda se il mondo finirà in fuoco o in ghiaccio, in un’esplosione o in un gemito, non è più soltanto letteratura. Che cosa ci riservano, per esempio, le grandi migrazioni? E dove fermeremo la violenza che esplode ormai ovunque, all’interno delle società progredite come di quelle più arretrate, nelle lotte intestine, etniche, sociali? Ne usciremo, e come? In altri secoli un’ipotesi disastrosa provocava una speranza radicale, miracolista che oggi per fortuna non si coglie; la speranza odierna non ha nulla, o ben poco, dell’attesa che ardeva nei foschi, terribili millenaristi di altre epoche. Anche ciò che nella visione cristiana rimanda al giorno del giudizio ha riverberi meno corruschi. Sperare non significa più consegnarsi a qualcosa che dovrà accadere senza di noi. Scrive Abraham Heschel: “Non c’è nascita, e quindi speranza, in cui l’uomo e Dio non siano coinvolti insieme. Per realizzare il suo sogno, Dio deve entrare nei sogni dell’uomo, e l’uomo deve poter sognare i sogni di Dio”. Come dire che tutto è partecipe della nostra storia, che ogni evento registrato dalla storia prende il volto delle nostre azioni, che carne e spirito, desiderio e progetto, sono una cosa sola in qualunque luogo e momento; che niente e nessuno, dunque, può separarci dalla nostra attualità. Perché qui si gioca tutto: per chi crede, anche il dopo. Teìlhard de Chardin, parlava di una trascendenza anche verso il basso, verso quella che chiamava la “santa materia”. Non a caso oggi è una materia meno estranea al pensiero laico.

“Soltanto la scienza è ormai in grado di assumere tutto l’ottimismo umano per trasformarlo in qualcosa di certo. Logorato dalla sua capacità di dubitare, l’uomo contemporaneo vuole essere in grado di produrre certezze”, disse il filosofo marxista Gyorgy Lukàcs, Come dire che o ci incarniamo tutti nella delusione, andandola a provocare dentro la storia, oppure, per avere troppo accettato d’essere delusi in nome di una naturale debolezza, consentiremo che le certezze siano prodotte al di fuori del nostro consenso.
Sarebbe ragionevole non offrire la delusione a nessuno, ma uscirne. Tra le due sponde cruciali, passato e futuro, tra “fides et ratio” c’è un’umanità che continua ad arrovellarsi nella ricerca di un bene da vivere insieme. Spesso, in questi ultimi anni, ci siamo comportati come se non potesse che succedere quanto stava avvenendo, e fossimo condotti per mano dalla televisione a vedere i risultati di una storia che esisteva in quanto ci veniva mostrata, e diventando oggetto di sorpresa, di curiosità, anziché essere letta come il frutto della decisione di produrla. Si è scritto che, cambiata la natura della storia, non poteva non mutare, di conseguenza, il modo di comunicarla e di riceverla. Un’intera generazione di giovani saprà dalle statistiche che tra militari e civili della Seconda guerra mondiale sono rimaste milioni di croci. Si era spento un naturale tutt’uno della cronaca e della storia.

Per dirla con John Naisbitt, fu come se un’intera generazione fosse vissuta nel “tempo delle parentesi”; e infatti sembrò di “mettere tra virgolette il presente, tra passato e futuro, perché non erano stati né qui né altrove”. Ne derivò una sorta di neo-realtà, quasi l’ombra proiettata dalla realtà vera. Ma è possibile, domanda Fausto Colombo, “un’etica dell’ombra”?
Si è fatto il tentativo di esprimere in cifre la qualità della vita: ne è nato l’indice di sviluppo umano, che tiene conto non soltanto del reddito prodotto, ma anche di fattori come l’istruzione, il servizio sanitario, il potere d’acquisto, l’incidenza della criminalità e della droga, la crisi del libro, la disparità tra uomo e donna, e altri ancora. Il risultato è una graduatoria per noi sconsolante, che pure si confronta con altri, innegabili e sorprendenti successi. Ci si chiede se per non essere i “pali”, anziché i protagonisti, del nostro futuro, non dovremmo appropriarci del presente e farne la base della prossima storia; cosi consiglierebbe una concreta saggezza. Ma come liberarci dal sospetto che il più accadrà al di fuori di noi, senza l’incomodo di dover dire la nostra?

Premono, fra tanto minimalismo, anche idee forti. Ecologia, pace e moralità sono alcuni dei nuovi capisaldi della qualità della vita che vanno sostituendo antichi valori, di destra e di sinistra. D’altronde, senza nulla togliere al primato della politica, va detto che il tempo ha reso indispensabile un diverso modo di concepirla e attuarla. I referendum sono stati un nuovo segnale. Ora, alle stanchezze identitarie dovrà subentrare i1 dinamismo della concretezza. E senza indulgere all’idea assurda della fine dei partiti – nessun partito vorrebbe dire un solo partito – bisognerà capire che il nuovo si è annunciato con la proposta di leggere la politica in un modo diverso, dandole persino un altro lessico: dovremo assuefarei a privilegiare parole come “programma”, “aggregazione”, “alternanza”. Il rinnovamento investirà anche un ceto politico divenuto, contro ogni avvedutezza, professionale e di massa; ma in pari tempo non si potrà assolvere la società civile dall’esser stata, anch’essa, il cosiddetto sistema: non a caso, infatti, ha partecipato al voto per quasi cinquant’anni come poche altre nell’Occidente producendo, tuttavia, il minimo cambiamento. Si fa strada una cultura specialmente giovanile che non assegna più al domani compiti palingenetici, i quali vengono giudicati utopici, fondati sul sogno. I giovani si aspettano dal domani solo risposte, diciamo, tecniche: conferme o smentite, cioè la verifica di un trend. Del resto, non era mai successo che gente di ogni estrazione e cultura fosse tanto a disagio in un mondo che pure ha espresso un numero vertiginoso di opportunità.

Questo mondo, così ricco di conquiste, resta non di rado talmente privo del nostro consenso interiore da diventare, per paradosso, una confezione dorata di soluzioni obbligate; se non anche, in qualche modo, ricattatorie. Ma, in generale, incalza la voglia di esistere secondo noi stessi, immaginando un senso della vita che le società più appagate, e quindi ormai conservatrici, sembrano non saper garantire. “Quasi che un mondo sazio non possa avere anche un’anima. Fattori di movimento, paradossalmente, sono le minoranze non ancora integrate, che dalla loro marginalità ascoltano esterrefatte questo nostro gran dire sul benessere distribuito e sull’equità raggiunta: non è vero che “stiamo tutti bene”. È vero che siamo generalmente “più ricchi, anche se più malinconici”, precisa il Censis. Del resto, questo Paese che, seppur lentamente, progredisce in ogni campo è a crescita demografica zero: un misto di sfiducia, di egoismo e di prudenza. Stiamo meglio, insomma, ma forse ci piacciamo un po’ meno. Investiti da una crisi che è la più grave da quando, nella riconquistata libertà, nacque la nostra Repubblica, dobbiamo rigenerare le istituzioni assicurando ad esse il nutrimento vitale delle virtù civili. La corruttela diffusa, la violenza contro le donne, e le collusioni con l’Antistato a lungo protette dall’omertà, dagli occultamenti, dalle deviazioni, pronte a perderci nell’ignominia; la realtà ci impone di dare un senso a ciò che rifiutiamo e a quello che abbiamo deciso di volere.

Siamo a un confronto difficile: l’”io” di ieri s’incontra con il nuovo, ancora un po’ estraneo, un po’ deluso, un po’ in attesa. Di gran lunga più sicuro per quanto materialmente ha conquistato, ma consapevole di ciò che, dentro, è venuto meno. Non si tratta soltanto di essere culturalmente pronti a ciò che cambia, ma anche eticamente capaci di adeguare le scelte ai principi. Disponiamo di mezzi sempre più idonei al mutamento, lo si vive con orgoglio ogni giorno, stentando però a trovare il profondo e complesso disegno che lo giustifichi. E tuttavia continueremo a crescere in misura dei problemi che dovremo risolvere. Non saranno dunque le parvenze a farei diversi, ma la percezione e la coscienza di ciò che, cambiando, ci cambia; e sapendo che domani si potrà ancora cambiare questo mondo cambiato. Si potrà affrontare un viaggio intorno alla qualità della nostra vita solo camminando nel segno della consapevolezza e della trasparenza, del coraggio e della responsabilità: i nomi nuovi della speranza. Ma occorrerà concepire, studiare e mettere in opera una sorta di cooperazione e lealtà, se saremo capaci di fondare una solida amicizia tra scienza e umanesimo in nome della nostra partecipazione al progetto, ben più grande, di tenere in vita una realtà cosmica. A noi oggi, basterebbe occuparci del nostro pianeta.

Fonte: Sergio Zavoli | Avvenire.it

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