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I Cammini. Ragazzi difficili, in marcia per cercare se stessi

L’antropologo francese Le Breton da anni segue le associazioni che recuperano le devianze giovanili impegnando i ragazzi in lunghi periodi di cammino: «Viaggiare a piedi è una terapia»

«Due o tre mesi continui di marcia possono permettere a un adolescente vulnerabile di ricostruirsi, reinventarsi, cambiare il proprio rapporto con il mondo. Marciare è un rimettersi al mondo». Per questo, il noto antropologo francese David Le Breton segue da tempo il lavoro degli educatori e delle associazioni che coinvolgono in lunghi periodi rigeneranti di marcia i giovani con trascorsi di disagio o devianza. Autore di riflessioni sulla marcia tradotte anche in Italia, come Il mondo a piedi. Elogio della marcia (Feltrinelli), o Camminare. Elogio dei sentieri e della lentezza (Edizioni dei cammini), lo studioso interverrà domani a Parigi al primo convegno di respiro europeo dedicato al fenomeno, intitolato ‘Gioventù europee in difficoltà: marciare, progetto educativo di reinserimento’ (presso la Société nationale d’horticulture), in presenza di associazioni di vari Paesi pronte a confrontarsi, come l’italiana ‘Lunghi cammini’, nata recentemente in Veneto.

Quest’approccio di reinserimento è davvero nuovo?
«L’idea trae ispirazione dalla tradizione dell’immersione dei giovani in un ambiente naturale per spingerli ad attingere dalle proprie risorse, soprattutto nel movimento scout, inizialmente in Inghilterra, poi dappertutto in Europa lungo il XX secolo. A partire dagli anni Ottanta, sono nate associazioni in Europa pronte a spaesare volontariamente dei giovani in difficoltà, conducendoli in viaggio in Africa o altri contesti lontani. Dunque, il viaggio come esperienza terapeutica e d’integrazione. Oggi, prende corpo l’idea di reinventare la marcia con gli stessi scopi, sullo sfondo di un contesto nuovo».

Quale?
«I giovani vivono spesso una grande sedentarietà. Pur senza scomparire, il corpo si assenta spesso nella loro esperienza del mondo. Marciare per diverse settimane lungo migliaia di chilometri diventa allora un modo per ritrovare un’esperienza sensoriale, emotiva, fisica del mondo. Un modo per rientrare nel mondo in un’altra maniera, con una diversa prospettiva. Si tratta di giovani che in molti casi, almeno in Francia, vivono nelle banlieue popolari, in versioni impoverite della città, lontane da molte sollecitazioni relazionali. Talora, quartieri dove c’è poco da vedere, sentire, gustare, toccare. Lo stesso si può dire per le emozioni, centrate sulla ripetizione quotidiana delle stesse esperienze, in un registro poco esaltante: uscire, ritrovare gli amici, attendere che il tempo passi. Nella marcia, affrontano esperienze completamente nuove, comprese le dimensioni della bellezza del mondo, della meraviglia, della contemplazione. Talvolta, basta imbattersi nelle more dei rovi selvatici per scoprire nuovi gusti, la prodigalità della natura. Se la marcia sconfina all’estero, pure i gusti di un’altra alimentazione. C’è poi tutta l’esperienza degli incontri con altri camminatori, il condividere un pasto, i legami imprevisti d’amicizia. Questi giovani lasciano così un sistema chiuso di valori per scoprire l’immensità del mondo, accanto a persone di ogni età, ceto, nazione. Un modo anche per comprendere quanto il precedente orizzonte personale fosse ristretto».

Quanto conta chi accompagna?
«Molto, innanzitutto in uno spirito di contenimento. L’accompagnatore fissa dei limiti chiari, richiama le regole, il contesto. Ad esempio, spetta a lui ricordare che l’indomani occorrerà svegliarsi di buon’ora e che dunque non è saggio coricarsi tardi. Lo stesso per gli eccessi d’alcol, che non si addicono alla marcia. O nella gestione dei soldi, per pernottamenti o altro».

È in gioco pure una ricerca d’interiorità?
«Certamente, tanto più se si considera che telefonini e simili sono generalmente proibiti. Questi giovani si dedicano alle conversazioni faccia a faccia o al silenzio, un’esperienza quest’ultima che per alcuni era prima rara, data l’abitudine frequente di saturare l’udito con musiche di ogni tipo. La marcia dischiude un’interiorità nutrita anche di silenzi, compresi quelli così densi della natura. A tratti, la convivenza e la condivisione con l’accompagnatore può anche fare a meno di parole. I giovani possono scoprire che l’interiorità non è necessariamente un abisso in cui perdersi. Che si può restare per ore silenziosi e felici. Senza questo contatto nuovo con l’interiorità, non può esservi la metamorfosi e il passaggio iniziatico ricercati in questo tipo di progetti».

Le istituzioni si mostrano oggi più sensibili a quest’approccio?
«Per le associazioni che si sono lanciate in questa sfida non è sempre facile trovare interlocutori in ascolto. A lungo, anzi, le istituzioni politiche si sono mostrate ostili. Come in Francia, dove la repressione è stata maggiormente valorizzata rispetto alla prevenzione e all’accompagnamento. Viviamo in società che inseguono la massima sicurezza e ciò frena talvolta pure l’ardore delle associazioni, spaventate dalla prospettiva di possibili incidenti. A mio avviso, occorrerebbe coltivare una certa diffidenza verso gli eccessi di questa tendenza, che finiscono per divorare tante iniziative educative stimolanti, non solo con i giovani vulnerabili, ma anche a scuola. Tanti educatori temono di valicare i muri del proprio istituto. Il principale ostacolo diventa proprio la questione del rischio e delle assicurazioni».

Eppure, in Europa, sembra crescere la voglia di mettersi in cammino, come mostra il revival di Santiago de Compostela…
«Sì, per ragioni non lontane da quelle colte dalle associazioni per il reinserimento. Marciare a lungo può divenire per tutti una riconquista di sé, soprattutto durante lutti o altre forme di malessere interiore. Aiuta a distanziare le difficoltà, a ritrovare il gusto di vivere e una combattività interiore, rinnovando certe capacità di resistenza. È una fonte di virtù antropologiche. Inoltre, la marcia inizia come una passeggiata, ma sfocia sempre in forme di spiritualità. Diventa una forma di pellegrinaggio. Non necessariamente verso Dio, ma comunque verso esperienze metafisiche. A partire dall’eterna domanda: ma chi sono io, in mezzo all’Universo?».

Fonte: Daniele Zappalà | Avvvenire.it

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