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Senza la fede giudaico-cristiana la scienza moderna non esisterebbe

Sulla questione del rapporto tra religione e scienza, sarebbe quanto mai opportuno sgomberare il campo da alcuni pregiudizi che non aiutano a inquadrare il dibattito nella giusta prospettiva.

Primo fra tutti, ciò da cui discende tutto il resto, quello secondo cui le religioni, in particolare quella cattolica, sarebbero (sono?) un ostacolo allo sviluppo della scienza. L’errore di fondo di questa visione consiste nel misconoscere un fatto fondamentale: senza la fede giudaico-cristiana la scienza moderna non sarebbe mai sorta. Partiamo da un presupposto elementare: la scienza, intesa nel senso di conoscenza (della natura, del mondo ecc.), si fonda su un principio molto semplice: 

Le divinità naturali e cosmiche delle religioni politeiste generavano paura e timore nell’uomo, che era quindi costretto ad offrire sacrifici, a volte anche umani, per godere del favore degli dèi. Questa visione del rapporto uomo-divinità è stata superata grazie all’affermazione del monoteismo giudaico, poi ripreso dal cristianesimo, nella misura in cui esso rappresenta una sorta di desacralizzazione della natura.

Nel momento in cui si afferma l’unicità di Dio, tutte quelle divinità che prima incutevano timore all’uomo ostacolandone la curiosità sono ridotte al rango di semplici creature, e la natura acquista una nuova fisionomia. Questo processo è chiaro fin dal primo capitolo del Genesi, soprattutto se lo si confronta con i racconti di creazione babilonesi, a cui si ispirarono gli scrittori biblici. Laddove per i babilonesi il Sole, la Luna e gli astri erano divinità, in Genesi 1 sono realtà create dall’unico Dio: importanti quanto si vuole per la vita dell’uomo, ma che sono e restano creature senza alcuna connotazione sacra. E questo passaggio, cioè il venir meno della paura nei confronti di forze oscure e divinità minacciose, ha coinciso con l’inizio della conoscenza. A ciò si aggiunga che nel corso dei secoli il giudaismo entrò in contatto con il mondo ellenico, più portato alla speculazione e alla ricerca, e da questo connubio nacquero le premesse teoriche che stanno alla radice della scienza moderna (oltreché dell’intera civiltà europea).

C’è poi un secondo pregiudizio, non meno tenace e altrettanto infondato del primo, che riguarda invece la natura dei testi biblici, a partire proprio da Genesi 1. Da diversi decenni gli studi biblici hanno chiarito che il racconto mitologico (nel senso di “mito” come genere letterario, non di favoletta per bambini) di Genesi 1 risponde al “perché” della vita e dell’universo, e non del “come” ciò sia avvenuto. La fede ebraica, da cui quel testo è scaturito, dice semplicemente che all’origine del creato c’è Dio in quanto causa prima. Di più non afferma, e sbaglierebbe chi volesse attribuire alla Bibbia significati che esulano dalla sua genesi e dalla sua finalità. Tra l’altro, anche l’affermazione secondo cui la creazione sarebbe avvenuta in sei giorni andrebbe come minimo contestualizzata alla luce dei più recenti studi biblici – da cui emerge un quadro ben diverso da quello che comunemente si pensa – anziché presa alla lettera come usano fare fondamentalisti di ogni schieramento. E’ ormai appurato che quel testo, risalente al periodo dell’esilio babilonese, fu scritto dalla classe sacerdotale. Più interessante è rispondere alla domanda sul perché i sacerdoti adottarono proprio lo schema sei più uno, che in gergo tecnico si chiama “settenario”. Nel racconto c’è un centro focale, un punto dove tutto converge: è il settimo giorno, quando Dio “si riposò”. Ma nel calendario ebraico il settimo giorno coincide con lo Shabbat (che significa riposo), cioè il giorno in cui i sacerdoti si recavano al Tempio per officiare il culto. Dunque il settimo giorno era il giorno per eccellenza della classe sacerdotale, che quindi poteva riacquistare agli occhi del popolo quell’autorità che era venuta meno con la disfatta dell’esilio. Non bisogna dimenticare infatti che i primi “colpevoli” dell’esilio babilonese furono ritenuti proprio i sacerdoti, a causa dei loro peccati contro Dio e contro il popolo denunciati dai profeti. Al racconto di Genesi 1 soggiace insomma un’esigenza apologetica della classe sacerdotale per riacquistare credibilità e autorevolezza. Questa la genesi storico-letteraria del testo “incriminato”, che ovviamente nulla toglie all’interpretazione teologica, di cui è legittimo e unico depositario il magistero della chiesa.

 

Per concludere. Quando si discute su questa come su altre questioni che hanno a che fare con i testi biblici, bisognerebbe tenere presente che religione e scienza hanno statuti differenti che vanno rispettati. La religione dà una risposta alle domande ultime, al “perché” delle cose (e nel caso specifico di quella cattolica essa si fonda sulla Rivelazione di Dio – ciò che la distingue da tutto il resto e la connota più come fede che come religione – non è per nulla un fatto soggettivo né tantomeno intimistico-psicologico come vorrebbe la vulgata laicista e certa teologia catto-protestante); la scienza, invece, cerca di scoprire “come” avvengono i fenomeni. Tra le due prospettive non c’è opposizione, ma distinzione senza che ciò precluda la possibilità di essere allo stesso tempo scienziati e credenti. E forse non è un caso se tutti i più grandi scienziati della storia erano credenti e la maggior parte di essi cattolici. E’ tipico di una certa visione positivistica, purtroppo ancora oggi imperante, rappresentare la scienza come la luce contrapposta alle tenebre della fede.

Un pregiudizio bello e buono, propinato ad arte e consolidatosi nel corso dei secoli fino a diventare luogo comune. E come tutti i luoghi comuni, anche questo sul rapporto tra fede e scienza fatica a morire.

Fonte: Luca Del Pozzo | Il Foglio.it

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