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Le domande di senso che in finanza non ci poniamo: il tempo non è denaro

I Francescani per primi hanno riflettuto sulla funzione sociale del meccanismo risparmio-credito, capendo che dietro al prestito non c’è solo tempo che passa, che fare banca è positivo per i poveri

Il Tempo è denaro? Si sente dire spesso, ci è stato insegnato non a filosofia, ma nei fumetti, nei film, nella scuola della vita o nelle lezioni di economia e finanza. Ed in fondo tutte le persone sono più o meno convinte che, in fondo, sì, il Tempo è Denaro. D’altra parte il denaro è la nostra unità di misura privilegiata: più del chilogrammo o del metro. Si può misurare tutto con il denaro, o almeno così sembra. Il denaro misura il valore e rende confrontabili i valori di cose o servizi molto differenti tra loro. È quindi unità di misura e mezzo di scambio. Se il denaro può misurare tutto allora può misurare anche il tempo. E infatti lo misura: quanto guadagni l’ora? Quanto vale un ora? Ancora di più: il valore stesso del denaro è bene sia legato al tempo attraverso un inflazione ridotta e controllata. Dunque se tempo e denaro sono legati e il denaro si lega al valore di tutto… allora il tempo è denaro. Io penso che credere veramente che il Tempo è denaro sia una aberrazione, una violenza, una bestemmia verso l’umanità e la natura e non solo verso le religioni. Sono convinto che sia ovvio, ma scritto nero su bianco sembra di forzare la mano, di esagerare nella retorica. Quella che segue è dunque una traccia di lavoro, una serie di domande su cui lavorare ancora. Perché, che ci piaccia io no, le domande sul denaro oggi sono domande sul senso della vita.

Perché oggi pensiamo che il tempo è denaro? Il denaro ci serve, ha un utilità formidabile per facilitare gli scambi economici, ma anche semplificare le relazioni economiche tra le persone. Vi sono alcuni aspetti democratici del denaro sottolineati da Luigino Bruni che sottovalutiamo facilmente, ma che sono importanti: la facilità della redistribuzione, la semplificazione della fiscalità, la possibilità di fare previsioni… Il denaro è una ‘tecnologia’ utile, come lo sono le interazioni digitali, o le tecniche ingegneristiche per costruire i ponti. Possiamo usarlo meglio? Certamente, ma soprattutto servirebbe ridurne lo strapotere culturale che ci porta a credere che il tempo è denaro. Il denaro oltre ad unità di misura e mezzo di scambio ha anche un altra funzione: è una riserva di valore. Fino alla fine del medioevo questo concetto non era chiaro. Questo comportava che qualunque prestito con interessi fosse considerato equivalente all’usura e quindi un peccato mortale in quanto associato ad avidità ed avarizia. Il ragionamento può essere così semplificato: tra il momento in cui si presta il denaro e quello in cui lo si riceve indietro, se non si considera la funzione di riserva di valore, passa solo del tempo.

Ma nel medioevo il concetto del tempo era diverso dall’attuale, il tempo era chiaramente di Dio, si rifiutava persino l’idea di poter misurare il tempo con gli orologi. Quindi fare guadagno sul tempo che intercorreva tra il prestito e la sua restituzione, equivaleva a speculare su qualcosa che era proprietà di Dio: un peccato gravissimo. Sono stati i Francescani che hanno riflettuto sulla funzione sociale del meccanismo risparmio-credito (per inciso riconosciuta nella nostra Costituzione). Capiscono che dietro al prestito non c’è solo del tempo che passa (quindi non si ruba a Dio), che fare banca è positivo per la gente, per i poveri: il denaro che gli viene prestato ha valore, fa la differenza. Condannano l’usura, ma favoriscono i prestiti con interessi moderati. Nascono così le prime banche sociali: i Monti di Pietà. Banche che potevano richiedere interessi con precisi limiti posti da Bernardino da Siena e assunti nel concilio del 1512: non chiedere interesse ai poveri; prestiti che siano utili per ‘fare’; premiare l’intraprendenza; suddividere i guadagni; non fare speculazione; non fare azzardo (quindi capacità di valutare il rischio).

Sarebbero dei bei punti fermi da mantenere oggi, eppure ne abbiamo perso memoria… Sembra che da allora la religione sia stata inefficace ad intervenire sul tema denaro. La crescita dell’importanza dell’economia nelle società ha favorito la separazione tra economia e fede, la separazione tra i magisteri… Infine la fede nella mano invisibile del mercato col tempo è divenuta una buona scorciatoia per non farci domande. Implicitamente si è affermata una quarta funzione del denaro: il denaro è potere. Lo diventa se si abdica alle domande di senso: su cosa succede dietro, intorno e con il denaro. Il denaro, la sua gestione, la sua accumulazione, le sue regole, sono potere. Un potere enorme che gli stati avocano a sé e che oggi però si è spostato, nella definizione stessa del denaro, in un ambito finanziario slegato dall’economia reale (non il legame antico con oro o preziosi, ma le masse monetarie e quindi chi le controlla). Ma ancora di più è potere culturale che condizione le politiche: diritti, filiere, salvaguardia ambientale vengono sempre di più valutati a valle della corretta gestione finanziaria dei flussi di denaro. Temporalmente viene prima il denaro e poi il resto.

Da ex fisico ho una domanda apparentemente sciocca: esiste un principio di indeterminazione in economia, ma non ce ne siamo accorti? Se misuro tutto solo con il denaro finisco per perdere tutto il resto che sarebbe misurabile, per dargli meno importanza o importanza secondaria. Ma come succede nel principio di indeterminazione in fisica quantistica se misuro solo una grandezza si altera la realtà: spingo la misurazione a darmi risultati che mi rendono ‘incerte’ le altre variabili. Si forza la realtà verso il denaro e si condiziona in tal senso la società. Oggi è il tempo del denaro, possiamo pure fare a meno del petrolio, del supermercato, delle auto, ma non possiamo immaginare una società senza denaro: per questo pensiamo che il tempo è denaro. In realtà è ovvio a tutte le persone che il tempo più che il denaro misura la nostra vita, le nostre relazioni, la nostra felicità: il denaro non misura tutto il valore. Di certo non misura cosa ci rende felici, anzi il denaro può essere uno specchio per allodole che ci distrae dalla ricerca della felicità. Di sicuro non misura cosa fa funzionare la natura: il denaro non misura il valore degli ecosistemi.

Allora il tempo NON è denaro? No, non lo è, e dobbiamo avere il coraggio di dirlo e prendere atto delle conseguenze. Non esiste un contatore che trasforma tempo in denaro a prescindere dal rischio e addirittura dall’uso che ne viene fatto, o meglio: se la finanza pensa che ci sia allora ci deve essere per tutti e quindi stabiliamo un reddito minimo (orario) per tutti. Forse può anche essere un idea, ma non cambia il punto. Il tempo in finanza è anticipo di futuro. Infatti l’importanza delle banche sta nel fatto che sono in grado di anticipare oggi i guadagni futuri utilizzando il surplus, i risparmi di tutti, facendoli in un certo senso diventare bene comune. Ma questo anticipo se governato esclusivamente da una logica di massimizzazione del profitto unito alla potenzialità tecnocratica, diventa bestemmia: il ‘tempo è denaro ‘ e determina le scelte della società. Prima il denaro poi il resto.

Da anticipo di futuro che crea bene comune, a distruzione di bene comune che accumula ricchezze future per pochi, il passo è breve. Difficile regolamentare cosa si può e non si può fare: dove siamo all’interno dell’insegnamento francescano del medioevo e dove no. Difficile stabilire confini, ma facile capire che tali confini sono già stati abbondantemente superati e quindi qualche colpo di accetta per ridurlo si può dare: mettere un tetto ai derivati, inserire un limitatore di velocità come la Tobin tax, ridurre le cartolarizzazioni, i paradisi fiscali, la speculazione senza freni… Oggi forse in senso laico possiamo dire che il tempo è dell’Uomo e che occorre che il tempo che passiamo lavorando, investendo, spendendo, non sia solo denaro, ma sia vita, sia generatore di senso per le comunità. Per farlo occorre farsi delle domande e fare domande. La strada è lunga, ma gli esempi positivi non mancano.

Fonte: Ugo Biggeri | Avvenire.it

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