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La nuova frontiera sono le piattaforme che pagano l’utente per vedere la pubblicità. Un modo per sfruttare ancora di più la categoria fragile degli adolescenti

Oggi, nell’era della comunicazione, la merce più pregiata è l’attenzione. Chi più l’attira, più guadagna e ogni nefandezza è funzionale. Dateci un fanciullo per il tempo di uno spot e sarà nostro consumatore per tutta la vita, insegna la paideia del Terzo millennio. Marshall McLuhan suggerì un’immagine vincente: se un ladro scavalcasse il cancello di casa vostra, lanciasse una succosa bistecca al cane da guardia e penetrasse in casa rubandovi i gioielli direste che una persona l’altra notte è passata da voi per nutrire il vostro cane? Lo stesso sarebbe il dire che un programma tv o un sito internet abbiano lo scopo di nutrire la nostra conoscenza. Nessuno naturalmente conosce un solo amico che si lasci condizionare dalla pubblicità; forse è per questo che 30 secondi di spot durante il Super-Bowl costano solo 5 milioni di dollari e poco tempo fa Barilla ha siglato un contratto di sponsorizzazione di 40 milioni di euro con Federer.

Circa venti anni fa, al tempo del referendum sulle interruzioni pubblicitarie, Fellini vaticinava che «non si ha il diritto di interrompere un’emozione», mentre Umberto Eco denunciava l’istigazione al cogitus interruptus che preserva dalla nascita di un pensiero critico. Poi l’assuefazione ha fatto il resto. Clinton, in un famoso discorso da Presidente, denunciò che un ragazzo americano, all’età di 18 anni, ha già visto 200.000 scene di violenza e 40.000 omicidi. Peccato omettesse di calcolare il numero di spot già sorbiti. «Se volete sapere cosa sta veramente accadendo in una società, tenete d’occhio dove vanno i soldi. Se finiscono in pubblicità, allora essa è più interessata alla manipolazione, anziché alla verità o alla bellezza», scrive Jaron Lanier in Tu non sei un gadget (2010). Le tv commerciali vendono il tempo degli spettatori agli inserzionisti. Oggi, con la sfrontatezza che solo la tecnologia multipotente può permettersi, Pulcinella ha fatto il coming out del suo segreto, e lo ha espresso tramite piattaforme molto in voga tra i ragazzini che si chiamano AppLike, Spotland o SlideJoy e versano qualche centesimo sul tuo conto PayPal per ogni spot guardato.

È la semplificazione del contratto sociale: tu cedi la tua attenzione e il Nuovo Leviatano ti assicura protezione e accidioso benessere. “ PaidToClick”, pagato per cliccare, è lo slogan. In Spotland la pubblicità è divisa in categorie, perciò è lasciata pure la “libertà” di scegliere quella che più fa al nostro caso. Su una barra ben in vista, come un goloso incentivo, viene aggiornato il gua- dagno: 50 centesimi per ogni 10 minuti di spot guardato. L’app avverte che, tramite un sistema di riconoscimento facciale, è in grado di rilevare se stiamo davvero guardando o abbiamo alzato gli occhi dallo schermo. «Benvenuti in SpotLand» è il cartello di accoglienza del sito e, forse, della nostra stessa città. SlideJoy offre invece un lock screen personalizzato che visualizza news o pubblicità ogni volta che sblocchiamo il telefonino: 5 euro al mese sono praticamente assicurati. AppLike, AppCasher, QuickCash, Whaff pagano per scaricare giochi o video sponsorizzati. Un quindicenne su un forum esprime il suo entusiasmo: «Si possono fare anche 20 euro a settimana, se sei molto attivo!»; un altro adolescente rilancia: «Basta scaricare i giochi indicati e giocarci … e veniamo pure pagati per questo». Guadagno passivo è stato etichettato. E così «nell’ecosistema delle tecnologie dell’interruzione» (Cory Doctorow) proliferano i cliccatori causando l’estinzione dei contemplativi.

Qualche comico negli anni Novanta faceva la battuta: perché interrompono la pubblicità con spezzoni di film? Alla fine, abbiamo risolto il problema. L’azienda paga (lautamente) la piattaforma internet con la garanzia che la propria pubblicità abbia tante visualizzazioni; la piattaforma paga (miseramente) l’utente per guardarla. A che pro lambiccarsi per inventare sfarzosi show o mega eventi sportivi quando puoi raggiungere il medesimo fine, cioè far guardare la pubblicità, calando un centesimino nel salvadanaio degli spettatori? Tutti ci guadagnano (chi più, chi meno) e nessuno polemizza più su persuasione occulta o messaggi subliminali. Si è mai sentito che un pollo d’allevamento, stanti le condizioni di luce e di mangime, si sia astenuto dalla compulsione a cliccare, pardon, a beccare? Un intervento su “Life Sciences, Society and Policy” (M. Ienca, R. Andorno, 26 aprile 2017) ha promosso la scrittura di una Dichiarazione dei nuovi diritti umani nella società ipertecnologica, propugnando, tra gli altri, il diritto alla “continuità psicologica” minacciata dal neuromarketing. Ha tutta l’aria di essere un’eccellente idea: basta trovare un ricco sponsor che la veicoli. Uno sponsor, appunto. L’umile accorato avviso finale è per i genitori: se vedete il vostro ragazzo agire come un Lucky Luke della tastiera che clicca più veloce della sua ombra, premuratevi di accertare che dal “guadagno passivo” non passi a uno stile di vita “globalmente passivo”. La preoccupazione e la speranza sono rivolte ai giovani, perché per gli adulti – ahinoi – les jeux sont faits.

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