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Appendino e le scuole dei torinesi

«Se chiudo gli occhi e immagino la Torino di domani, vedo una città dove tutti i torinesi sono felici di vivere. Per questo mi impegno perché i nostri figli possano usufruire di servizi educativi moderni e di qualità a un costo accessibile». Per realizzare quel che scrive sul suo sito ufficiale, la sindaca di Torino Chiara Appendino avrebbe dovuto aumentare i fondi alle scuole dell’infanzia paritarie invece che proporre di ridurli del 25% come è avvenuto, provocando la protesta delle scuole paritarie e delle famiglie torinesi.

Solo aumentando, o almeno non decurtando, i fondi stanziati, infatti, le 5.500 famiglie che hanno deciso di iscrivere i figli nelle scuole dell’infanzia paritaria avrebbero avuto una parità di trattamento rispetto a chi ha scelto la scuola comunale o statale. La decisione di ridurre drasticamente i fondi, invece, aumenta ancora di più una diseguaglianza che per i bimbi portatori di handicap è a dir poco scandalosa. Giustificare questa scelta per motivi di bilancio è paradossale: un bambino in una scuola dell’infanzia comunale costa all’amministrazione 590 euro al mese, un bambino in una scuola paritaria costa al Comune 55 euro al mese. Se le scuole paritarie chiudessero e tutti i bambini iscritti dovessero trovare un posto nelle scuole comunali, l’amministrazione torinese sarebbe costretta ad aumentare di quasi 30 milioni le spese sul proprio bilancio (basta moltiplicare per 10 mesi la quota mensile per ogni bambino e togliere i contributi che vanno alle scuole paritarie ).

Una vecchia lezione insegna che per vedere se una scelta è giusta è utile e necessario portarla fino alle estreme conseguenze: «È giusto dire il falso? Immagina come sarebbe un mondo in cui tutti dicessero sistematicamente il falso. Vivere sarebbe impossibile». Anche in questo caso i risultati parlano chiaro. Se non ci fossero le scuole paritarie, sarebbe impossibile garantire un «costo accessibile» delle scuole dell’infanzia per la città di Torino. Sono conti semplici che potrebbero bastare per trarre conclusioni “laiche”, in grado di rispettare il bene comune e la sua sostenibilità. Non è un caso che l’autore della legge sulla parità scolastica che riconosce dal 2000 il valore di servizio pubblico alle scuole istituite da privati si chiami Luigi Berlinguer. Una persona che non viene sicuramente dal mondo cattolico. Le scuole dell’infanzia cattoliche nascono a Torino per aiutare le famiglie molto prima di quelle comunali e statali, alcune hanno più di 150 anni. Sono tutte gestite da enti no profit e attualmente su 560 dipendenti solo 40 sono religiosi.

Difendere un sistema integrato non significa solo affermare un principio strategico per la sostenibilità presente e futura dei servizi pubblici nel nostro Paese, ma il cuore stesso di uno Stato democratico che ha nella libertà di educazione uno dei suoi diritti fondamentali.

È difficile pensare che una persona preparata e capace come Chiara Appendino, laureata in una università privata d’eccellenza, non capisca queste ragioni che sono anche di tanta gente semplice. Delle due l’una, infatti: o le famiglie saranno costrette a pagare più caro il servizio a causa del taglio dei contributi o dovranno rivolgersi alle scuole comunali, facendo crescere i costi per l’amministrazione nel caso riescano a trovare posti disponibili per l’iscrizione. Perché allora togliere la possibilità di avere una scuola di qualità a chi non potrebbe permetterselo? Perché mettere in crisi un sistema che funziona? Perché avviare un’operazione autolesionista sia sul piano educativo sia sul piano economico-finanziario? Perché non dare seguito a quello che lei stessa si era proposta di portare avanti nel suo programma? C’è tempo e modo per rimettere le cose a posto, e magari per farle andare meglio.

Fonte: Elena UgoliniAvvenire.it

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