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«Educava alla dipendenza dalla realtà»

 

Oggi pomeriggio, all’Università Cattolica di Milano, la presentazione del volume sulle origini di Gioventù Studentesca di Marta Busani.

Roberto Pertici, professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Bergamo, è tra i partecipanti all’incontro di presentazione del volume di Marta Busani, Gioventù Studentesca. Storia di un movimento cattolico dalla ricostruzione alla contestazione, Studium 2016 (lunedì 9 gennaio ore15.30, Università Cattolica di Milano, Largo Gemelli, Aula Pio XI. Gli altri partecipanti sono i professori Agostino Giovagnoli dell’Università Cattolica ed Edoardo Bressan dell’Università di Macerata, oltre all’autrice; modera Maria Bocci, storica dell’Università Cattolica).

Di Gioventù Studentesca si è spesso parlato e scritto ma una sua storia vera e propria non esisteva. Il lavoro di Marta Busani riesce a colmare questa mancanza nella storiografia?
Non c’è dubbio. GS era già stata oggetto di ricerche ma all’interno di studi più ampi sull’associazionismo cattolico, specie degli anni Sessanta, ma un lavoro ampio e approfondito come questo della Busani mancava. La giovane studiosa ha avuto accesso, in vari archivi, a un materiale documentario di prima mano e in buona parte inedito ed ha avuto il merito di padroneggiarlo e utilizzarlo adeguatamente.

Gli studi su GS (e poi su CL) cui lei ha fatto riferimento sono stati a volte dettati da intenti apologetici o più spesso polemici. Qui usciamo o no da queste forche caudine?
Mi lasci premettere una cosa. Dal punto di vista storico, GS e CL non sono la stessa cosa. GS era pur sempre un movimento all’interno dell’Azione cattolica, CL invece è estraneo all’Azione cattolica. CL ha costituito un vero e proprio signum contradictionis, oggetto anche nel mondo cattolico «d’inestinguibil odio e d’indomato amor», per dirla con il poeta. Comunque anche già prima il fenomeno GS aveva introdotto tensioni: evidentemente don Luigi Giussani e Giuseppe Lazzati non erano nati per intendersi… Voglio dire che l’esistenza di passioni contrapposte non deve meravigliare. Ora lo storico deve avere la giusta distanza critica dall’oggetto del suo studio senza lasciarsi fuorviare dal desiderio di giustificare o dalla foga di criticare. Direi che la Busani, che pure è per così dire interna al movimento formato da don Giussani, ci sia riuscita.

La sua appartenenza non è un limite, in questo caso?
No. Si vede che è per così dire coinvolta, ma ciò è positivo: infatti lo storico deve lavorare con onestà e competenza sulle fonti, questo sì, ma non può essere e non deve fingersi asettico e totalmente neutro. È naturale che abbia i suoi orientamenti ideali e culturali, ed è bene che metta le carte in tavola.

GS è stata spesso interpretata come un movimento di reazione alla modernità, sostanzialmente nel solco dell’intransigentismo cattolico dell’Ottocento. Secondo lei?
Premetto che non condivido la posizione per cui se accetti in blocco la cosiddetta modernità vai bene, se la critichi, anche in parte, non vai bene. Così modernità diventa uno slogan, un passepartout magari, ma non ci aiuta a capire le cose. Del resto, ogni uomo normalmente ragionevole, cristiano o no, vaglia il mondo che lo circonda, prende ciò che gli appare positivo, lascia il resto. Giussani fa un’altra cosa: non si pone il problema di accettare o respingere in blocco la modernità, ma ne coglie le sfide e cerca di rispondervi. Il suo è un equilibrio – mai definitivo – fra tradizione e innovazione, è una posizione, come dice il vangelo, di chi trae dalla vita nova et vetera, le cose nuove e quelle antiche. Il tutto non a caso nel contesto di quello straordinario laboratorio del futuro dell’Italia che è la Milano degli anni Cinquanta e Sessanta. No, un nesso tra i giessini e i cattolici intransigenti dell’Ottocento non lo vedo proprio.

Quali sono stati a suo giudizio gli aspetti storicamente più innovativi di Gioventù Studentesca?
Ne dico tre: la promiscuità, la presenza nella scuola di massa, il lavoro culturale.

La promiscuità è davvero così importante?
Oggi non ce ne rendiamo conto, ma rompere lo schema che voleva associazioni maschili e associazioni femminili rigorosamente separate, fu un fatto rivoluzionario non a caso bersaglio di molte critiche. Sono convinto che Giussani intuisse tra l’altro già allora un ruolo più dinamico della donna nella società italiana.

Scuola: perché lei sottolinea l’aspetto di massa?
Perché in precedenza l’azione dei cattolici nella scuola si era svolto in un contesto necessariamente elitario ed era mirato a formare la classe dirigente del Paese. Pensiamo anche, in ambito universitario, alla Fuci soprattutto a partire dagli anni Trenta, da cui sono usciti la maggior parte dei leader democristiani. Nel Dopoguerra invece, soprattutto negli anni Sessanta, la scuola diventa di massa. Occorrevano un approccio e strumenti nuovi, e GS se ne assunse il compito.

Lavoro culturale: trattandosi di studenti sembrerebbe ovvio.
Eh no. Il lavoro culturale nel mondo cattolico del Dopoguerra era entrato in un progressivo declino. Giussani lo mise in primo piano, intendendolo non come erudizione ma come coscienza di sé e come carità, amore alla realtà e agli uomini. Non a caso agli studenti era proposto il lavoro culturale insieme all’esperienza della caritativa nella Bassa milanese allora, spesso, poverissima e disagiata. Un’idea di cultura-carità l’aveva promossa monsignor Montini, futuro cardinale di Milano e papa Paolo VI, già prima della guerra. Da questo punto di vista Giussani fu molto montiniano.

Non a caso il primo libro di Giussani è Il senso religioso, tema della grande Missione per Milano che il cardinale Montini lanciò nel 1957. La Busani identifica in questa sottolineatura del senso religioso dell’uomo una novità fondamentale della proposta cristiana di don Giussani nella società secolarizzata. L’altro fattore chiave è il concetto di esperienza.
Ai ragazzi e ai giovani in quegli anni la comunicazione del cristianesimo consisteva in un insegnamento della religione, fatto in genere da un sacerdote, in maniera direi alquanto nozionistica: verità di fede da apprendere e precetti morali. Il punto di partenza erano la dottrina e la morale. Giussani assume invece come punto di partenza l’esperienza della persona. Fu accusato per questo di cedimento al soggettivismo, perché la parola esperienza veniva intesa come qualcosa appunto di soggettivo. Il metodo di Giussani in realtà accettava la sfida della soggettività ma riportava il soggetto a una realtà oggettiva. La sua è una educazione alla dipendenza dalla realtà. Per Giussani l’esperienza, se la interroghi bene, conduce a riconoscere che la realtà esiste, è afferrabile ed ha una sua oggettività che esclude ogni soggettivismo arbitrario. E questo è un cardine per così dire tradizionale, in opposizione alla cultura relativista. Inoltre, in opposizione all’individualismo, la stessa fede, in Giussani, è certamente radicata nella persona, ma vissuta comunitariamente, sostenuta da un’amicizia e verificata nella sequela della persona cui si dà fiducia, che ha un carisma. Ed è attraverso questa sequela particolare che si abbraccia la Chiesa nella sua realtà anche istituzionale. Nella cultura anti-istituzionale che si stava diffondendo negli anni Sessanta, questo fu, credo, il passaggio più difficile.

Secondo lei i fattori fondamentali di GS, che stanno alla base di Comunione e Liberazione, sono ancora validi e in grado di reggere ai problemi di oggi e di suggerire una risposta plausibile all’uomo del nostro tempo?
Io sono uno storico e come tale non posso esprimere un giudizio di questo tipo. Posso dire la mia opinione in generale: credo che assumere il presente come sfida a cui rispondere serbando gli elementi della tradizione sia la posizione giusta del cristiano. Egli non deve né demonizzare né esaltare il presente, ma vagliarlo criticamente sulla base del patrimonio della propria tradizione.
Se e quanto questo è attuato in CL, non sta a me dirlo: lo sa meglio lei.

Fonte: Tracce.it

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