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LIBRI – L’affetto che ci strappa dal nulla

Nell’epoca delle fragilità e dei desideri impazziti, ecco una proposta piena di ragione, verità e amicizia. La testimonianza di Giancarlo Cesana tra don Giussani e Freud

Non c’è bisogno di andare fino in America dove le università (sì, le università) stanno organizzando lezioni, incontri e “spazi sicuri” per dare sostegno psicologico agli studenti scioccati (sì, scioccati) dalla vittoria di Trump. Anche qui da noi, e da tempo, l’educazione mostra gravi segni della tendenza a ridursi a una sorta di guscio mentale protettivo contro l’impatto con la realtà. Basta osservare il moltiplicarsi nelle scuole italiane di corsi antibullismo, antistereotipi, antitutto, che spesso, non a caso, sono guidati da psicologi o esperti vari: più che una “guerra ai pregiudizi” ormai è una vera e propria guerra al giudizio. Cioè alla realtà. Ma è di questo che hanno bisogno i giovani? È di questo che abbiamo bisogno noi?

Ecco, in un contesto simile il libro di Giancarlo Cesana andrebbe tenuto fisso sul comodino. Insegnanti, genitori, educatori in genere, anche studenti, tutti dovrebbero averlo sempre a portata di mano. Perché Ed io che sono? (La Fontana di Siloe, 127 pagine, 10 euro, nelle librerie in questi giorni) parla proprio di psicologia e di educazione, ma senza dare istruzioni per l’uso o suggerire formule magiche antiqualcosa, semplicemente restituendo entrambe le cose al loro ambito. E a entrambe il loro fascino. Cesana ha passato una vita su questi temi, sia per professione (è medico e psicologo) sia per passione (ha affiancato per oltre trent’anni don Luigi Giussani nella conduzione di Cl). Il libro perciò è anche una testimonianza. Soprattutto, è un libro strano perché si muove appunto “tra psicologia ed educazione”, come recita il sottotitolo, ma tutto ruota attorno al problema dell’affezione, l’affetto, l’energia che principalmente sostiene la vita dell’uomo, direbbe san Tommaso.

Un giudizio dell’intelligenza
È strano perché la preoccupazione di Cesana è spiegare la differenza tra psicologia ed educazione, una differenza che non conoscono più nemmeno gli insegnanti, eppure per farlo l’autore non smette mai di parlare di affezione. Forse perché è così grande la confusione affettiva sotto il cielo, che perfino una cosa naturale come educare ormai ci sembra essere un esercizio da psicologi.

E invece Cesana dice: sbagliato appaltare l’educazione agli esperti. Perché è sbagliato pensare che l’affetto, la vita, sia un problema psicologico. L’affetto per Cesana – e qui arriva una delle definizioni spiazzanti che caratterizzano il suo approccio – «è un giudizio dell’intelligenza». L’amore non è un sentimento, non è una pulsione. È un giudizio. Un giudizio «carico di attaccamento all’altro, in quanto segno di un positivo per me». Ed è proprio «la divisione tra affezione e giudizio» l’origine della fragilità psicologica in cui siamo immersi. Infatti «tutte le patologie mentali», scrive Cesana, ultimamente «sono disturbi dell’affetto, ossia della capacità di attaccarsi e godere della realtà». E non a caso «il primo e reale rimedio al disagio psichico» è sempre un rapporto: «Senza transfert, senza affezione, non ci può essere una valida psicoterapia». E ancora: «Senza rapporto, senza essere voluto da un altro e volere un altro, l’Io non sussiste, non capisce il proprio significato».

La presenza di un altro
Ma se questo è vero per il terapeuta, a maggior ragione vale, secondo Cesana, per l’educatore. «L’educazione è qualcosa di più della psicologia, di meno scientifico, ma più necessario e rischioso perché implica un’inevitabile compromissione con altri, il loro destino e le loro aspettative. Non si dovrebbe fare a meno di educare e lasciarsi educare: non solo da giovani, sempre; dovrebbe essere normale e, invece, non è scontato». E non è scontato perché «ha bisogno di qualcosa in più», e cioè la fatica dell’amicizia, verrebbe da dire leggendo il libro. Se l’uomo per consistere ha bisogno di attaccarsi a qualcosa, allora quel qualcosa deve esserci, deve essere presente. Tutta la vita di Cesana è la testimonianza di questo, un «rapporto», o meglio una «sequela», «uno sviluppo intellettuale e umano fondato sulla presenza di un altro»: la proposta cristiana «sperimentale e rischiosa» di Cl e di don Giussani («venite e vedete»); l’incontro con Emilia, «la donna che sarebbe diventata mia moglie», che «aveva un giudizio chiaro su cose e persone, ma paradossalmente senza misura» poiché «non terminava mai nella definizione, ma nella dedizione».

Per i digiuni o quasi della materia, la parte di Ed io che sono? dedicata alla psicologia è grasso che cola. Cesana è un freudiano illuminato dalla fede cattolica, oltre che dal dono della sintesi. In poche pagine riesce a rendere digeribile la «genialità dell’osservazione di Freud» perfino agli intolleranti, anche grazie a qualche appunto di chiaro stampo giussaniano. Vedi, ad esempio, il rilievo secondo cui se nell’esplorazione dell’umano «vale l’inconscio, deve valere altrettanto il conscio; anzi, deve valere di più, in quanto espressione della libertà», altrimenti si precipita nel determinismo (e il poveraccio che per un lapsus chiamasse la fidanzata con il nome della sua ex sarebbe fregato per sempre). Un motivo c’è se un grande maestro della psichiatria come Eugenio Borgna nella prefazione riempie Cesana di complimenti, elogiando in particolare il suo «assoluto rigore strutturale» e la sua «chiarezza espositiva».

La speranza dei Prigioni
Quando parla di educazione, poi, Cesana è una gran boccata di ossigeno. È specialmente per questo che ci permettiamo di suggerire il libro per un posto di riguardo sul comodino. In questa epoca di simpatici spostati ci vuole niente a convincersi che un fanciullo un po’ turbolento abbia l’Adhd o chissà quale altro inafferrabile guaio psicoidentitario. Allora ogni tanto è utile ridirsi cos’è questa benedetta educazione. Fosse anche solo per evitare di stordire i figli di pasticche quando invece avrebbero bisogno di una sculacciata (sì, nel libro di Cesana c’è anche un’apologia della sculacciata). Soprattutto, per un aiuto a essere verso i figli (e a cercare per noi) quella presenza, quella «certezza affettiva» a cui ogni persona ha bisogno di attaccarsi per crescere. Ed è vero che l’affetto, inteso nell’accezione cesaniana, per essere sano dev’essere libero, altrimenti sarebbe manipolazione, ma guai a chi crede che qualunque proposta educativa chiara equivalga a una violenza, perché – così Cesana – «la libertà, come capacità di giudicare e agire secondo criteri propri, è una potenzialità che cresce e si realizza con il tempo e l’esperienza, ma soprattutto con l’educazione, che riempie di senso il tempo e la realtà». Emblematico il fatto che questo concetto si trovi nel capitolo “psicologico”, dove si spiega perché «l’origine della malattia mentale è situata nell’infanzia». «Quanto più l’esperienza della realtà è precocemente negativa di fronte a una libertà incapace di affrontarla, come è nell’infanzia, tanto più il disordine appare grave – psicotico, appunto – come se l’espressione della personalità, la sua libertà, venisse ostruita».

Ed io che sono? racconta perché l’educazione non è affatto un problema da psicologi. Anzi. È un problema anche per loro. Perciò, invita Cesana, fatevi educare, facciamoci educare. Nella vita serve un maestro capace di “e-ducere”, condurci fuori, strapparci dalla pietra come i Prigioni di Michelangelo, che per Cesana sono «testimonianza e speranza di senso contro la grigia ottusità della materia», e cioè della vita senza uno scopo, dove tutto è dominato dal caso e dalle pulsioni. La sensazione è che più degli esperti, servono gli amici. E se ci fosse un’educazione così, forse ci sarebbero meno menti scioccabili. Don Giussani direbbe: se ci fosse un’educazione del popolo tutti starebbero meglio. Anche psicologicamente.

La parola più forte
Ecco, questo libro restituisce al popolo la sua educazione e le sue parole. Cesana non ha paura di scrivere che la libertà, se insegue solo l’arbitrio, gira a vuoto. «Ciò che rende possibile essere liberi, che desta la nostra libertà, è la verità». Abbiamo una ragione fatta apposta per riconoscerla, e infatti «la verità non è privilegio di alcuni, intellettuali o preti che siano, ma è laica, è popolare – laós è il popolo in greco». E se educare «significa innanzitutto trasmettere a cosa serve vivere, che nesso ha la propria vita con il mondo; introdurre al significato dei particolari che la realtà manifesta», allora «uno che voglia educare, deve anzitutto essere disposto a essere educato, a conoscere lui il significato che ha la realtà. Per imparare, a tutte le età, occorre amare la verità». La verità delle cose («il rapporto che hanno tra di loro e con tutto, fino anche alle stelle»), la verità dell’uomo. E qui inevitabilmente arriva la parola più forte: Cristo.

Oggi «ci troviamo davanti a un paradosso: più avanza la conoscenza scientifica, la fiducia nel progresso e, quindi, nel potere dominante della ragione, più avanza e cresce il senso di debolezza e di insicurezza. La ragione e l’intelligenza, non trovando quello che desiderano, si abbassano, si circoscrivono in un desiderio limitato: così il grigiore, come rinuncia al senso della vita, finisce per governare l’esistenza». Ma la risposta per Cesana non è assecondare la debolezza e l’insicurezza, nessuno in fondo desidera davvero rinchiudersi in uno spazio psicologicamente sicuro. «Principio educativo fondamentale è il respiro della proposta, che non può essere piccola, ma deve essere grande, per il mondo; una verità per cui si può dedicare la vita». Deve starci dentro tutto, senza amputazioni: desiderio, libertà, giudizio, affezione. Cesana una proposta così ce l’ha, Ed io che sono? ne è una testimonianza. «Perché le famiglie non riescono a stare insieme, a durare, a riprodursi? Perché non hanno amici, non hanno compagnia, qualcosa più grande di loro che le tenga insieme. (…) È davvero una grande fortuna per una famiglia essere parte di una comunità, in cui ci sono persone di età, temperamento e storia diversi, che però vivono per un unico grande ideale».

Fonte: Ed io che sono? Di Giancarlo Cesana | Tempi.it

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