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Per capire la vita contemplo ogni giorno il cadavere di uno dei miei giovani figli

 

Memento mori. Con questo saluto ci si dava la buona notte durante il periodo del Noviziato. Le prime volte mi sentivo a disagio perché, venendo da un piccolo paese di montagna, erano rari i funerali, anche se tutte le mattine il prete (siamo prima del Concilio) celebrava, vestito con la pianeta nera, la Messa per un defunto, mentre mio nonno con la sua voce baritonale cantava il Requiem, il Sanctus e l’Agnus Dei in gregoriano. Poi nel tempo ho imparato a sentire familiare il pensiero della morte. Quel “Memento mori” era un aiuto a prendere sul serio la mia vita.

“Verrà la morte e avrà il mio volto, avrà il tuo volto”. Guardando ogni giorno il cadavere di uno dei miei giovani figli morto a causa del cancro o dell’Aids, non posso non vedermi al suo posto, perché prima o poi verrà il mio turno.

Ogni notte, verso le 23, dopo aver salutato il Santissimo, prendo l’ascensore che mi porta nel sotterraneo della clinica dove c’è la cella mortuaria. Entro e per alcuni minuti rimango in silenzio guardando il cadavere di mio figlio, mentre con la mano destra accarezzo il volto freddo e duro come una pietra. Quel freddo e quella rigidezza mi fanno impressione, anche perché so che dopo pochi giorni ogni parte di quello che è stato il tempio dello Spirito incomincerà a corrompersi. Oggi tocca ai miei figli, ma verrà anche il mio turno.

Se non avessi la certezza della verità che professo nell’ultima parte del Credo, guardando tutti i giorni questo angosciante “spettacolo” inizierei a pensare che la violenza più terribile è quella di mettere al mondo un essere umano condannato a soffrire, morire e sparire nel nulla. «Credo la resurrezione della carne. E la vita eterna». Tutta la ragionevolezza della vita sta in queste parole ormai censurate nella cultura moderna e, a dir la verità, anche nella Chiesa. Quanti preti parlano dell’ultimo articolo del Credo? Forse quando celebrano un funerale. Ma lo fanno senza testimoniare la gioia di Gesù risorto.

È terribilmente facile abituarsi a tutto, anche alla morte. Censurare la realtà della morte o trasformarla in un fatto sociale. Due esempi. Primo: mi raccontavano che anni fa nel principato di Monaco coloro che morivano erano portati al cimitero all’alba, in modo che nessuno potesse vedere il carro funebre che avrebbe potuto perturbare la “stupida” vita degli abitanti.

Secondo: mi capita spesso di vedere quando muore una persona ricca. La morte diventa un fatto sociale in cui il defunto è un’occasione per incontrarsi e conversare tra una birra e l’altra. Il morto è relegato in un’altra stanza, come un oggetto di curiosità e il funerale è ridotto a un rito pagano. Una volta seppellito il morto, nessun segno religioso ricorda chi vi è sepolto, solo un nome che attira la curiosità di chi usa questi ettari di erba verde e di boschi per passeggiare.

Ma vi ricordate Il settimo sigillo di Bergman? La morte, per quanto cerchiamo di censurarla, verrà ed avrà i nostri occhi. Mi hanno riferito che al Centro Tumori di Milano la morte non si vede, “non esiste”, quando uno è alla fine lo si nasconde agli occhi dei visitatori. Che illusi!

Questo ospedale è un segno
In una cultura disumana come quella descritta, esiste una realtà che ricorda all’uomo il suo destino finale, e questa realtà si chiama Chiesa, di cui il nostro ospedale è un piccolo segno della sua materna presenza.

Che grande è l’amore della Chiesa per il destino ultimo dell’uomo! Un amore che da secoli si manifesta anche nel dedicare il 2 novembre alla commemorazione di tutti i defunti e concedendo ai sacerdoti il potere di celebrare tre Sante Messe e ai fedeli che visitano il cimitero la grazia dell’Indulgenza plenaria per i defunti. In ogni Messa il sacerdote prega dicendo: «Ricordati dei nostri fratelli defunti» o «Ricordati del nostro fratello che hai chiamato oggi da questo mondo alla Tua presenza, e concedigli che come ha condiviso la morte di Gesù, condivida pure la gloria della Sua resurrezione». Distratti come siamo, neppure ci rendiamo conto della profondità di queste parole.

Oggi, dopo un anno di sofferenza per un cancro molto aggressivo, è morto un bambino di 9 anni. I genitori, che fin dall’inizio del calvario sono stati sempre al suo fianco, alcuni giorni fa mi hanno detto: «La malattia di nostro figlio è un potente richiamo di Dio alla conversione e per questo, dopo 25 anni di concubinato, vogliamo sposarci in Chiesa». Ancora una volta sono testimone di cosa vuol dire guardare il dolore e la morte con lo sguardo di Gesù, quello sguardo che ha fatto resuscitare Lazzaro e consolare tanti sofferenti.

Fonte: Contemplare la morte per capire la vita | Tempi.it

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