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REFERENDUM – Il lavoro di decidere

Il 4 dicembre si vota sulla modifica della Costituzione. In un clima di scontro, il primo passo urgente (come ricordano i Vescovi) è non abdicare alla responsabilità personale di informarsi. Qui un aiuto per capire da dove viene la riforma. Cosa prevede e cosa no

Il 4 dicembre saremo chiamati alle urne per votare il referendum costituzionale. Tutti dovremo rispondere a questa domanda: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?». Sì o no?
È una domanda secca alla quale non possiamo evitare di rispondere. Si tratta, infatti, di cambiare il testo della nostra Costituzione non per un intervento di maquillage, per un mero “aggiustamento”: gli articoli da modificare sono tanti, 47. Quello che si vuole ottenere è un cambiamento rilevante, volto ad avere effetti di lungo periodo.
Non è la prima volta che cambiamo la Costituzione (in tutto è successo 15 volte dal 1948) e non è il primo referendum costituzionale che votiamo: ne abbiamo votati altri due, nel 2001 (approvato) e nel 2006 (respinto). Ma quello che non ha precedenti è il clima di scontro violentissimo e di delegittimazione reciproca in cui avviene il dibattito. Tutto il contrario di quel clima che ha auspicato il presidente Mattarella al Meeting di Rimini, quando ci ha ricordato che «la nostra storia è illuminata da occasioni di unità, da numerosi passaggi di condivisione e di comune responsabilità, che hanno consentito al Paese di compiere salti in avanti, o di evitare drammatiche cadute all’indietro. Gli inevitabili contrasti che animano la dialettica democratica non devono farci dimenticare che i momenti di unità sono decisivi nella vita di una nazione. E che talvolta sono anche doverosi. È un grande merito saperli riconoscere».
Il contesto attuale, invece, sta producendo come conseguenza inevitabile la confusione assoluta, per cui, ad oggi, è difficilissimo capire esattamente cosa c’è davvero in gioco in questo referendum: si voterà sulla Costituzione, sul futuro della democrazia, sulla legge elettorale, sul futuro del Governo, delle Regioni?

Una responsabilità. In questa condizione, l’invito più realistico e responsabile è quello che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha rivolto al termine della sua prolusione dello scorso 26 settembre: «Il Paese è atteso per un importante appuntamento, il Referendum sulla Costituzione. Come sempre, quando i cittadini sono chiamati ad esprimersi esercitando la propria sovranità, il nostro invito è di informarsi personalmente, al fine di avere chiari tutti gli elementi di giudizio circa la posta in gioco e le sue durature conseguenze».
Questa è la prima indicazione decisiva in un momento come quello attuale: ognuno di noi non può abdicare alla sua responsabilità personale nella ricerca degli elementi per il giudizio. Sarebbe venir meno ad una nostra precisa responsabilità civile e pubblica se, per non far fatica o per un senso di repulsione, decidessimo di non affrontare il tema – casomai non partecipando al voto -, ovvero scegliessimo la comoda scorciatoia degli schieramenti o delle semplificazioni, senza un lavoro reale per cogliere le ragioni.
Non a caso, il referendum costituzionale, a differenza di quello abrogativo delle leggi, non ha un quorum minimo. Vale comunque, sia che partecipi al voto il 51% degli elettori, sia che partecipi il 20%. E questo proprio perché i costituenti volevano che su una cosa così importante il consenso o il dissenso dei cittadini fosse totalmente libero e responsabile.
Abbiamo quindi davanti a noi quasi due mesi in cui la responsabilità più grande è proprio questa: opporsi al clima dominante – fatto di schieramenti apriori, di slogan urlati, di opposte tifoserie – e proporre un lavoro personale e collettivo per cogliere le ragioni e la portata reale di questo cambiamento, così che ognuno possa formulare un giudizio.

Due domande. Come possiamo aiutarci in questo lavoro?
Da un lato, infatti, non tutti sono esperti di norme costituzionali e il significato delle modifiche proposte può rimanere oscuro anche dopo aver scaricato il testo della riforma (che comunque suggerisco a tutti di leggere).
D’altro lato, assistere a centinaia di trasmissioni televisive o di confronti tra sostenitori del sì e del no finisce per lasciarci più disorientati di prima, se non si ha un criterio per valutare le opzioni. Viene proprio in mente il grande T.S. Eliot: «Mille vigili che dirigono il traffico, non sanno dirvi né perché venite né dove andate».
Dunque, proviamo a cominciare questo lavoro comune ponendo sul tappeto alcuni dati che possano aiutarci a capire da dove viene questa proposta e dove intende andare.
Questa riforma viene da lontano. Sono più di trent’anni che si discute di cambiare la Costituzione. Perché? Perché non ha garantito i diritti e non ha saputo costruire la democrazia in un Paese che veniva da una dittatura e da una guerra persa? Certo che no! Questa parte (la Prima) della Carta non è in discussione. Quello che è in discussione è l’organizzazione, la macchina istituzionale pubblica per prendere decisioni e, soprattutto, per attuarle.
Su questa parte è da oltre trent’anni, appunto, che pressoché tutte le parti politiche affermano la necessità di un cambiamento per correggere una serie di disfunzioni che sono sotto gli occhi di tutti. Certo, le istituzioni camminano sulle gambe degli uomini e, quindi, non si potrà mai scaricare del tutto la responsabilità della attuale condizione “solo” sulle regole o le organizzazioni. Ma un peso le istituzioni lo hanno. Dunque, è da qui che nasce l’idea, fortemente richiesta dalle istituzioni internazionali e ormai condivisa da tutti i partiti, che un cambiamento è necessario.
Così veniamo alla seconda domanda. Cambiare sì, ma per andare dove? E soprattutto, come arrivarci?
Al di là di molte questioni più di dettaglio, due sono gli obiettivi principali di questa riforma.
Il primo, cambiare il Parlamento. Attualmente è composto da due camere (Camera dei Deputati e Senato della Repubblica) che partecipano con eguali poteri alla produzione delle leggi; con la riforma si vuole passare ad un Parlamento in cui la Camera manterrà il suo ruolo politico (quindi sarà eletta dal popolo e darà la fiducia al Governo) e il Senato avrà il ruolo di rappresentare le istituzioni locali: Regioni e Comuni (quindi sarà eletto tra consiglieri regionali e sindaci).

L’inizio del lavoro. Il secondo, cambiare il rapporto tra Stato e Regioni. Questa seconda parte della riforma, in realtà, è una modifica dell’altra riforma che abbiamo fatto nel 2001. Nel 2001 abbiamo modificato il riparto delle competenze tra Stato e Regioni creando tre sfere di competenza legislativa (dello Stato, delle Regioni e condivisa tra i due). Questo sistema ha creato molti problemi e conflitti; la riforma si propone di portare le sfere di competenze a due (statali e regionali) semplificando anche lo scenario degli enti locali, visto che si eliminano le Province.
È evidente che «il diavolo si nasconde nei dettagli», come dicono gli americani, dunque, bisognerebbe partire da questo primo schema per entrare nel merito di come si costruisce il nuovo Senato o di quali competenze si attribuiscono allo Stato o alle Regioni. Ma, come dicevo, questo è solo l’inizio del lavoro e del dialogo. E, attenzione, già da questi spunti iniziali di chiarimento del contesto emergono alcuni elementi decisivi per il giudizio.
Ad esempio, cosa questa riforma non contiene. In questa riforma non si stabilisce come verrà eletta la nuova Camera dei Deputati, perché questo è argomento della legge elettorale (il ben noto “Italicum”); e questa legge è già stata votata (tra l’altro da un’amplissima maggioranza parlamentare e, sorprendentemente, senza il clamore cui oggi assistiamo) ed è già in vigore. Indubbiamente propone un sistema elettorale che attribuisce un premio molto forte a chi ha anche solo una maggioranza relativa dei voti. I dubbi, per questa ragione, sono molti ed anche legittimi, perché si potrebbe creare uno scenario in cui una minoranza finisce per governare Parlamento ed esecutivo. Ma questo, appunto, non è in discussione il 4 dicembre. Così come il voto non è un referendum pro o contro il governo Renzi. In ballo c’è molto di più. Per questo conoscere, per decidere ciascuno consapevolmente, è l’inizio di un lavoro che è una responsabilità per tutti.

Fonte: Tracce.it

Approfondimenti:
Quaderno della sussidiaritetà:: SCARICA QUI :: La riforma costituzionale del governo Renzi: spunti e approfondimenti–   Con lo scopo di approfondire i contenuti della riforma, il 6 giugno 2016 la
Fondazione per la Sussidiarietà ha organizzato a Milano un seminario a cui ha invitato studiosi e rappresentanti del mondo politico di diversi orientamenti.
Questo Quaderno riporta i contenuti del seminario.

 

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