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LIBRI: MIND CHANGE Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli

Solo 12 anni fa Facebook non esisteva e non c’era nemmeno Twitter. Uno strumento utilizzatissimo come Wikipedia aveva solo poche decine di migliaia di voci e oggi ne ha quasi cinque milioni. Se andiamo più indietro, agli anni Ottanta del secolo scorso, quando si affermavano i primi telefoni portatili, nessuno avrebbe mai pensato che quella tecnologia avrebbe conquistato il mondo al punto che oggi dei sette miliardi di persone presenti sulla terra ben sei hanno accesso a un telefonino, mentre solo 4,5 miliardi possono usufruire di un bagno funzionante.

Poco più di trent’anni e quel passato sembra davvero appartenere a un altro pianeta. Una velocità evolutiva che oggi rende davvero difficile provare a farsi un’idea di quello che ci accadrà nel prossimo futuro. Non è un caso che quando si tocca questo argomento si torni spesso a riproporre quanto accadde a uno dei capi della Ibm dei tempi d’oro, tale Thomas J. Watson, secondo il quale non si sarebbero mai venduti più di cinque computer nel mondo. Eppure, di fronte all’ipotesi di un futuro iperdigitalizzato che si prospetta pieno di incertezze riguardo a possibili repentini cambiamenti dei nostri usi e costumi, per non dire del nostro cervello, sarebbe forse necessario tentare di capire qualcosa in più per non restare spiazzati. Lo sostiene apertamente la neuroscienziata Susan Greenfield, ricercatrice all’università di Oxford, titolare di ben 31 lauree honoris causa e membro della Camera dei Lord. Il suo ultimo lavoro, Mind Change, tradotto in Italia da Fioriti Editore col sottotitolo “Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta sui nostri cervelli” (pp. 260, euro 22), è il riuscito tentativo di mostrare e documentare tutti i buoni motivi per cui la nostra società ha urgente bisogno di farsi un’idea di come la mente umana verrà modificata nell’adattarsi alle logiche del mondo virtuale.

Il suo non è un approccio allarmistico, ma semplicemente razionale. Mette insieme i dati delle sue osservazioni e li incrocia con quelli di centinaia di ricerche internazionali. Giunge all’inevitabile conclusione che poiché la caratteristica peculiare del cervello umano è quella di adattarsi a ogni tipo di ambiente, così è anche per l’ambiente digitale. Ma poiché mai prima d’ora l’umanità ha assistito a cambiamenti tanto rapidi, non si può essere certi che il cervello sia capace di adattarsi a essi senza perdere (troppo in fretta) alcune delle caratteristiche fondamentali che caratterizzano il nostro modo di concepire la persona umana, le relazioni sociali, sensoriali e sentimentali.

Nella storia, del resto, non è mai accaduto che l’uomo abbia vissuto in un mondo virtuale, a due dimensioni, sostanzialmente impersonale, totalmente manipolabile e altamente deresponsabilizzante, in cui diventano inutili alcuni dei cinque sensi, in cui si puòfare a meno di metterci la faccia, di mostrare i propri sentimenti e le proprie idee. Già una ricerca inglese del 2011 rilevava che i ragazzi fra 11 e 17 anni si comportavano nel mondo digitale da persone diverse da quelle che erano nel mondo reale senza prendere in considerazione le possibili conseguenze. Inoltre, rileva l’autrice, viene da chiedersi cosa accadrebbe se la globalizzazione e l’omogeneizzazione culturale indotte da queste tecnologie ci portassero ad annullare le differenze e a pensare in modo così uniformato da cancellarele varie identità.Ma soprattutto Susan Greefield mette in guardia dal rischio piùsubdolo: la minimizzazione. Da anni, spiega, nei dibattiti e anche a livello politico la linea di pensiero di fronte alle possibili conseguenze dell’affermazione (imposizione?) del mondo digitale e virtuale è la convinzione che la modernità non si possa fermare e che per far fronte ai suoi aspetti deteriori basti, nei fatti, solo affidarsi a un uso moderato. Ma, afferma Greenfield, oltre a essere una banalizzazione del problema, se la moderazione di fronte a ciò che è piacevole e facilmente ottenibile fosse la norma del comportamento umano, nei millenni le nostre società si sarebbero risparmiate i vizi, le depravazioni, le violenze e le guerre.

E allora? Allora è meglio cercare di capire da subito dove ci sta portando questa modernità, studiare le possibili conseguenze sul cervello e sui nostri comportamenti perché può essere messa a repentaglio in pochi decenni una visione antropologica costruita su decine di migliaia di anni. Cercare di capire per anticipare i tempi. Nel tentativo di dare una risposta allepreoccupazioni e per non farsi trovare impreparati di fronte ai rischi possibili. «Per non vagare come sonnambuli verso l’ignoto». E non si tratta di un compito attribuibile ai soli tecnici delle neuroscienze, ma anche ai filosofi, ai divulgatori, e agli scrittori. Non a caso Greenfield cita tre grandi come il biologo e genetista John Burdon Sanderson Haldane, autore diDaedalus (1923), lo scrittore Aldous Huxley con Il mondo nuovo (1932) e George Orwell con 1984 (1949). E «a un tratto – evidenzia con grande efficacia l’autrice – il più grande problema è come potremmo usare queste conoscenze per capire il grado di determinismo biologico, la domanda finale sul libero arbitrio nell’era digitale».

Fonte: Avvenire.it

 

 

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