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Burkini e velo alle donne: non è una storia cristiana

Citare un testo biblico ‘tagliando’ è un fatto inevitabile, lo sanno i liturgisti. Ma prendersi la libertà di farlo dove si creda, è un trucco antico, caro ai vecchi dogmatici e poco rispettoso verso le scienze bibliche: a seconda di dove metti le forbici, infatti, il tessuto che resta assume un senso, fa passare un messaggio, fonda una verità. Un vizio altresì, trasversale, a credenti e laici, quello di estrapolare un versetto dal suo contesto per eleggerlo – nudo e crudo – a legge universale e necessaria. Qualcosa del genere fa Vito Mancuso su un passo di Paolo, tornato di grande interesse per i fatti relativi al burkini e al velo delle donne di religione islamica. L’approccio a questo argomento, utilizzato in un articolo apparso su ‘Repubblica’ del 27 agosto scorso, si fonda su una tesi, quella della «comune radice di cristianesimo e islam in ordine alla questione dell’abbigliamento cui devono essere tenuti i corpi delle donne». Un’identità suffragata dalla citazione di otto versetti della Prima Lettera di Paolo ai Corinti (1Cor 11,3-10) che vengono messi in una sorta di sinossi con altrettanti testi del Corano ad attestare come «sia per il cristianesimo, sia per l’islam l’abbigliamento femminile comandato non è una semplice questione di tradizione (…) ma suppone una precisa concezione del rapporto uomo-donna all’insegna della subordinazione di quest’ultima».

La stessa cosa, insomma. A partire dalla citazione di Paolo: «l’uomo non deve coprirsi il capo, dal momento che è immagine e gloria di Dio; dall’altra, invece, la donna è gloria dell’uomo…» il teologo conclude: «Qui San Paolo dice tre cose precise: 1. Che la donna è sottoposta all’uomo, così come l’uomo è sottoposto a Dio, secondo una netta gerarchia ascendente 2. che la donna non solo è sottoposta, ma è addirittura finalizzata all’uomo nel senso che è stata creata per l’uomo, di cui è chiamata ad essere la ‘gloria’; 3. che la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta». E finisce col dire: «L’islam rappresenta la medesima impostazione». Non so se teologhe e teologi di religione islamica ed esperti del Corano sarebbero d’accordo su tale «medesima impostazione», ma veniamo a Paolo. Sulla prima cosa «precisa» (che la donna è sottoposta all’uomo) c’è un primo ostacolo: nei versetti seguenti a quelli citati Paolo conclude: «Tuttavia nel Signore non c’è donna senza uomo, né uomo senza donna. Come infatti la donna proviene dall’uomo, così l’uomo è mediante la donna. Tutto poi viene da Dio» (vv.11-12). Il commento che fa Rinaldo Fabris – uno dei più grandi biblisti italiani ed esperti di Paolo – è questo: quanto Paolo dice che: «capo della donna è l’uomo e capo dell’uomo è Dio» risale al racconto della creazione di Genesi e al diverso rapporto dell’uomo e della donna con Dio che lì è descritto (cf Genesi 2,20ss), ma: «Questo argomento viene integrato con una riflessione che rileva la reciprocità dell’uomo e della donna nell’ottica cristiana – nel Signore – e davanti a Dio» (Prima Lettera ai Corinti, Paoline, 1999, p.142).

C’è insomma uno sviluppo dal testo di Genesi a quello di Paolo e le cose non sono, poi, così ‘precise’. Un altro testo fa vacillare ancor più la tesi in questione ed è questo: «La moglie non ha potere sul proprio corpo, bensì il marito e, allo stesso modo, anche il marito non ha potere sul proprio corpo, ma la moglie» (1Cor 7,4). Chi, allora, ha potere su chi? Quale esclusiva sottomissione del corpo della donna al marito? E, mentre il testo citato del Corano dice di «battere» le proprie mogli (4,34), nella Lettera agli Efesini si legge: «Voi mariti, amate le vostre mogli, come Cristo amò la Chiesa e diede sé stesso per lei» (Ef 5,25). E ancora, in merito alla morale coniugale: «Non sottraetevi l’uno all’altro se non di comune accordo temporaneamente per dedicarvi alla preghiera e per stare, poi, di nuovo insieme» (1Cor 7,5): nella coppia è previsto un vicendevole rispetto e una piena reciprocità! Che dire? Sulla seconda cosa «precisa» secondo Mancuso (la donna addirittura finalizzata all’uomo) si trova un altro ostacolo, sempre nella Prima Corinti: le parole rivolte alla «donna non sposata»: «Chi è sposato si prende cura delle cose del mondo, di come piacere alla moglie ed è diviso. E anche la donna non sposata e la giovane si prende cura delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; invece quella sposata si prende cura delle cose del mondo, di come piacere al marito» (1Cor 7,33-34). Uomo e donna vengono messi sullo stesso piano e la donna – che senza un marito viveva all’epoca una oggettiva precarietà – assume la stessa dignità dell’uomo dinanzi a Dio e alla comunità. Non è certo ‘finalizzata all’uomo’, al contrario, è libera di accedere autonomamente a Dio. Molta letteratura del femminismo cristiano contemporaneo considera la condizione delle ‘vergini’ come una vera esperienza di emancipazione della donna.

Anche il caso della vedova che «è legata al marito per tutto il tempo in cui egli vive, ma quando il marito muore è libera di sposare chi vuole» documenta tale nonsubordinazione della donna al marito, nella scala che sale fino a Dio. Infine, sulla terza «precisazione» di Mancuso: la donna deve coprire la sua testa in segno di accettazione dell’autorità cui è sottoposta. Gli ostacoli sono almeno due: uno scritturale e l’altro di sociologia delle Chiese delle origini. Lo stesso Paolo dice, infatti, nella lettera ai Galati: «rivestiti di Cristo non c’è più giudeo, né greco, schiavo, né libero, maschio, né femmina» (Gal 3,28). L’umanità nuova in Cristo fa decadere qualsiasi gerarchia: quella antropologica, della superiorità di genere – del maschile sul femminile; quella socio-economica – del padrone sullo schiavo; e perfino quella dell’elezione: la superiorità del popolo di Abramo su tutti gli altri. Questo testo rappresenta un vero ostacolo per i detrattori di Paolo, circa l’accusa di misoginia. Ma anche il rilievo sociologico che l’epistolario paolino – specialmente quello considerato autentico – insieme al libro degli Atti degli Apostoli permette di fare, esprime una chiara dignità delle donne. Pensiamo a Priscilla, moglie di Aquil , nella cui casa a Corinto visse Paolo: insieme a suo marito Priscilla era docente di Vangelo per gente come Apollo (cf At 18,26). E a Lidia, che ospitò la prima chiesa di Filippi, in Macedonia, o ad Evodia e Sintiche, grandi collaboratrici di Paolo che, della stessa chiesa, divennero responsabili. A Maria, madre di Giovanni Marco che governò la prima chiesa-casa di Gerusalemme, o a Febe, diacona della chiesa di Cencre. A Giunia, apostola ‘insigne’ del Vangelo, che aveva preceduto Paolo stesso nella fede; alla ‘sorella Apfia’, al cui indirizzo è inviato – tra gli altri – l’incantevole biglietto a Filemone.

Non si può negare una presenza autorevole e per nulla ‘sottoposta’ delle donne nelle comunità cristiane, che indossassero o meno il velo quando pregavano, o che tacessero durante le assemblee. L’esegesi scientifica invita a tener conto dei condizionamenti culturali in cui nasce e cresce la Bibbia, così come delle ragioni catechetiche e teologiche dei suoi contenuti. Nessuno può limitarsi a darne una lettura parziale e letterale. Il pensiero di Paolo sulle donne e sul loro capo che andrebbe velato non si può dedurre dai versetti 3-10 della Prima Corinti, ma occorre sottoporre a un’analisi critica ogni passo delle sue lettere, accettando che non si troverà mai una definizione ‘precisa’ e univoca per essere servita come un precetto eterno e immutabile. Tra i suoi testi, infatti, ci sono differenze, incoerenze, molte contraddizioni. Questo vale per tutta la Bibbia. Non c’è esegesi senza ermeneutica. Mancuso fa cosa molto buona se ricorda a tutti come alcuni passi della Scrittura siano stati utilizzati da diversi sistemi religiosi – anche nelle loro elaborazioni teologiche – per sottoporre le donne al potere maschile e negar loro la piena dignità. Ma fa cattiva informazione biblica quando utilizza quanto è scritto in pochi versetti come sacra dottrina senza il vaglio di una critica e ragionevole mediazione. Grazie a Dio e grazie anche ai preziosi stimoli culturali dei Paesi dove essa vive, la Chiesa cattolica ha ormai da più di mezzo secolo, ufficialmente fatto propri i canoni dell’esegesi biblica con la Costituzione conciliare Dei Verbum. Ispirandosi ai metodi storico-critici questa invita a distinguere – nei testi sacri – la «parola di Dio» dalle «parole umane» in cui essa si esprime. Di queste ultime anche il velo delle donne fa parte e le donne cattoliche lo hanno imparato da tempo. La scomparsa del velo dal capo delle donne non è dovuta solo all’ «affermazione della parità giuridica tra uomo e donna in Occidente», ma anche alla Riforma Liturgica dello stesso Concilio Vaticano II. Perché non aggiungere questo, magari come nota, sotto una citazione?

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