C’è una icona, simbolica memoria del martirologio cristiano nei lager nazisti: Teresio Olivelli nel campo di Hersbruck alla vigilia di Natale del 1944 al capezzale di Odoardo Focherini che morirà quella sera stessa. Il 17 gennaio 1945 Olivelli sarà ucciso a bastonate per aver difeso un altro prigioniero dalle angherie di un aguzzino. Focherini è già stato proclamato beato, mentre è in corso il processo di canonizzazione per Olivelli, già riconosciuto “servo di Dio”. Due testimoni della fede che si sono incontrati in un luogo di dolore.
Olivelli era nato cento anni fa, il 7 gennaio 1916. Il fascismo aveva condizionato la sua formazione intellettuale, anche se non era riuscito a intaccare il suo fervore religioso espresso nell’attività dell’Azione cattolica, della Fuci, delle Conferenze di San Vincenzo e in concreta carità quotidiana. Littore, giornalista, giovanissimo rettore del Collegio Ghisleri, sembrava aver risolto in sé le contraddizioni tra fascismo e fede anche se il suo iniziale antisemitismo non reggerà agli approfondimenti culturali e spirituali che lo portano a scoprire la falsità del mito della razza e, con esso, la povertà culturale del regime.
La guerra, alla quale Olivelli non si sottrasse (andrà volontario in Russia), gli darà la chiave degli errori professati, la consapevolezza che non tutto si risolve in una ipotetica eticità dello Stato, per sostituire i propri ad altri valori morali e religiosi. L’anno della svolta, il 1943, lo trova preparato. Aderisce sin dall’inizio alla lotta clandestina, organizza bande partigiane, fonda nel marzo 1944 il giornale “Il Ribelle”, diventa un esponente della Resistenza prima a Brescia poi a Milano. Qui sarà arrestato per la terza volta (era già evaso in due occasioni da campi di concentramento) nell’aprile del 1944 e, dopo mesi di detenzione e una serie di feroci interrogatori che non lo videro crollare, fu inviato a novembre a Hersbruck.
“Nella tortura serra le nostre labbra” aveva scritto in un documento che resta il simbolo dei combattenti cattolici, la Preghiera del ribelle, in cui ancora dice:

“Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa che il nostro sangue si unisca al tuo innocente e a quello dei nostri morti per crescere al mondo giustizia e carità”.

In un altro articolo aveva affermato: “La nostra rivolta non data da questo o quel momento, non va contro questo o quell’uomo, non mira a questo o quell’altro punto del programma, è rivolta contro un sistema e un’epoca, contro un modo di pensiero e di vita, contro una concezione del mondo”.
“Ribelli per amore”, lo slogan che figurava sotto la testate del giornale, diventò concretamente la formula sotto la quale si ritrovarono i partigiani cattolici. La pubblicazione, impostata nei primi due numeri da Olivelli e, dopo il suo arresto, gestita da altri combattenti della libertà, costituì una spina nel fianco degli occupanti e dei loro complici fascisti. Era stata voluta come voce dichiaratamente cattolica che non rifiutava la collaborazione degli altri componenti della struttura resistenziale nell’Italia del nord, purché non si inneggiasse alla violenza in sé, alla vendetta e all’odio contro il nemico, pur tenendo ferme le ragioni morali dell’ opposizione all’invasore.
Sotto la firma Cursor, Olivelli aveva elaborato una sorta di manifesto del combattente cristiano:

“Ribelli: così ci chiamano, così siamo, così ci vogliamo. Il loro disprezzo è la nostra esaltazione. Il loro ‘onorato’ servaggio alla legalità straniera fermenta l’aspro sapore delle nostre libertà. La loro sospettosa complice viltà conforta la nostra fortezza. Siamo dei ribelli: la nostra è anzitutto una rivolta morale”.

Come risulta da uno dei dodici “quaderni”, supplementi dei ventisei numeri che uscirono in quei mesi miracolosamente puntuali, probabilmente dovuto allo stesso Olivelli e intitolato “Schema di discussione di un programma ricostruttivo ad ispirazione cristiana”: a rilettura, ancor oggi dal quel testo si potrebbe forse imparare qualche cosa per una sana gestione della politica.