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Andare fuori dal gioco? «Ci si riprende la libertà» (VIDEO)

Il Crocifisso sul gran quadro appeso in un salone ha catene strappate ai polsi, anziché chiodi nelle mani. E don Alberto Canuzzi, presidente del Ceis di Viterbo (comunità dove ti tirano fuori da droghe, alcol e ludopatie), racconta, sorridendo, come uno dei ragazzi, a un certo punto «avesse capito che stava riprendendosi qualcosa che aveva perduto. Ed era la libertà ». Anche in questa provincia, che è piccola, il gioco d’azzardo incide e uccide: «Abbiamo capito che questa dipendenza sta rovinando le famiglie e le persone e deciso di affrontarla», va avanti il prete. Dirà poco dopo Ivan, quarantina d’anni, uno degli ospiti: «Davanti a me non erano rimaste altre strade, mi restava solo quella della comunità».

Quel “pensiero magico”. Ma come si finisce a bruciare stipendi, liquidazioni, risparmi e accumulare debiti per giocarsi tutto? «La convinzione, il ‘pensiero magico’ come si dice tecnicamente, di poter risolvere i problemi economici» con le slot machine o magari i ‘gratta e vinci’, spiega Gianfranco Fragomeni, psicologo del Ceis viterbese ed esperto in ludopatie. Del resto «i ‘giochi’ sono tanti e diversi – aggiunge Luca Zoncheddu, il direttore terapeutico della comunità –, ma quel che resta uguale è la perdita di controllo della persona, che entrando in questo meccanismo perde tutto».

 «Stato pietoso». Non è difficile caderci. « Lo Stato ha fatto un’operazione particolarmente furba – continua Zoncheddu –, ha tolto il gioco patologico dai casinò e l’ha avvicinato alle persone, approfittando della fragilità e dei disagi di queste ultime». Chi entra qui è sempre molto provato e spesso glielo si legge in volto: «Mi ricordo come sono entrato qui venti mesi fa ed ero in uno stato pietoso», sussurra Marco. Dev’essere per questo che per Ilaria Proietti, altra psicologa della comunità, «la cosa più bella è quando i ragazzi sorridono. Quando cominciano a farlo, significa che si è stabilita un’alleanza».

Gli sguardi di mogli e figli. Alcuni ragazzi stanno sistemando un muro, per altri è il turno di stare in cucina e preparare il pranzo. Ha un grosso vantaggio la comunità: «Il gruppo – sottolinea Zoncheddu –. Come luogo sociale dove ricostruire la propria identità d’appartenenza nella vita». Per Fragomeni il successo è vedere i ragazzi «tranquilli » e vedere «non tanto i loro sguardi, quanto quelli delle moglie, dei figli… Che hanno finalmente riacquisito la serenità familiare. Sguardi che mi emozionano e in qualche modo, se posso dirlo, mi fa capire l’importanza di quel che facciamo».

Duro lavoro. Il lavoro quotidiano sugli ospiti è duro, perché se non è difficile cadere in una dipendenza, lo è invece uscirne, così il Ceis viterbese è aiutato anche dall’8 per mille della Cei e gode del sostegno forte della locale diocesi. Marco ce l’avrebbe fatta senza la comunità? «No. Ci ho provato più di una volta e non sono riuscito». Ivano ha sofferto, ha dovuto lasciare la famiglia, «ma ha saputo mettersi in discussione e anche con ragazzi molto più giovani di lui», spiega don Alberto Canuzzi. Già, come si esce dal tunnel del gioco? «Facciamo fare loro lo stesso cammino terapeutico che fanno le persone che hanno una dipendenza da sostanze, certo tenendo sempre conto delle differenze individuali e intervenendo su queste».

Approfondimenti: Ceis

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