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IRAQ – Padre Douglas Bazi agli studenti di Carate Brianza: «Non lasciateci soli, raccontate la nostra storia»

15/05/2015 – Padre Douglas Bazi, sacerdote iracheno, incontra gli studenti del Liceo Don Gnocchi di Carate Brianza. Rispondendo alle loro domande racconta la propria vita e quella dei cristiani perseguitati. E spiega qual è l’unica arma per sconfiggere l’Isis

«Raccontate la storia del mio popolo. E aggiungeteci un capitolo: quello in cui i cristiani italiani entrano in gioco. Capite cosa voglio dire? Venite a Erbil». A padre Douglas Bazi, parroco della chiesa di Mar Elia, dove ospita centinaia di famiglie fuggite da Mosul, piace scherzare. È sempre allegro e ha la battuta pronta. Ma davanti ai duecento ragazzi del Liceo Don Carlo Gnocchi di Carate Brianza, il 14 maggio, è tremendamente serio. Lo dice davvero: «Venite da noi».

È stato invitato da un gruppo di studenti, giessini e non. L’idea è di Matteo Martellosio, un professore, che lo vede in un servizio della Bbc. Scopre che Tracce ne pubblicherà a breve un’intervista (sul numero di maggio). A colpi di sms si scopre che il sacerdote sarebbe stato in Europa e che, sì, era disposto a fare tappa a Carate prima di tornare in Iraq. Il gruppo di ragazzi fa il giro delle classi facendo vedere il video della Bbc per invitare i compagni. Se ne presentano duecento.
L’incontro inizia con un fuoco di fila di domande. «Come si fa a perdonare?». «Come si fa a vivere con gioia oggi in Iraq?». «È possibile un cammino verso la democrazia?». «Lei dice che l’arma contro l’Isis è l’istruzione. Davvero la conoscenza è una risorsa?». «Come i cristiani d’Oriente vedono quelli d’Occidente?». «Rimane a Erbil per motivi religiosi o per un bisogno umano?».

Padre Douglas risponde raccontando la storia del suo Paese e quella della sua vita. «Attenzione: il problema dell’Iraq non è innanzitutto il petrolio, che comunque è meno abbondante del sangue dei martiri. Il primo nodo è il conflitto interno all’islam tra sunniti e sciiti. Il secondo è lo scontro per guadagnare il diritto a occupare la terra. L’oro nero arriva solo al terzo posto. Allora perché i cristiani sono attaccati? Il nostro Paese ha una civiltà antica di 6000 anni, ma è privo di cultura. I cristiani sono gli unici che ricevono un’educazione che gli permette di distinguere il bene e il male. Sono gli ultimi ad avere la libertà di dire a chi governa che sta sbagliando. Così ci troviamo sempre tra due fuochi».

Per descrivere la persecuzione in atto, padre Douglas non fa altro che raccontare quello che è successo a lui stesso. Il giorno dopo il discorso di Benedetto XVI a Ratisbona nel 2006, quello su islam e la violenza nel nome di Dio, si accorge di un pacco di plastica appeso al cancello della sua parrocchia di Baghdad. Si avvicina e prima che riesca a raggiungere il cancello la bomba scoppia e si trova sbalzato indietro di trenta metri. «Sembrava un film d’azione: ci alzammo e ci chiedevamo a vicenda se stavamo bene ma tutti urlavano senza sentire nulla, perché lo scoppio ci aveva fatto perdere l’udito». In un’altra occasione viene colpito alla gamba da una pallottola sparata da un kalashnikov.

Pochi mesi dopo lo fermano in autostrada e lo mettono nel bagagliaio di una macchina. Nove giorni di rapimento in cui accade di tutto. Di giorno, mentre era legato e bendato, i rapitori gli chiedevano consigli personali, di notte lo torturavano come infedele. «Una volta uno di loro mi chiese come doveva fare con sua moglie con cui litigava, io gli dissi: “Non ti preoccupare, andate avanti, dille che le vuoi bene”. Poi una sera ci fu la telefonata con il mio confratello che stava trattando la mia liberazione. Convinto che non ne sarei uscito vivo, in aramaico gli dissi: “È finita”. Poi gli passai i rapitori e a loro disse: «Tenetevi pure padre Douglas, sarà l’ennesimo nostro martire”. Quella sera mi spaccarono i denti a martellate e mi ruppero un disco della colonna vertebrale. Alla fine mi rilasciarono».
Non gli piace raccontare queste vicende, ma ha deciso di farlo. Perché? «Il mio popolo sta morendo, non per la mancanza di cibo, ma perché rischia di perdere la speranza. Noi temiamo che la nostra storia non venga raccontata. Mio bisnonno fuggì dall’Armenia durante il genocidio, mio nonno fuggì a Mosul, mio padre a Baghdad e noi da Baghdad siamo dovuti risalire a Erbil. Ero a Erbil da neanche un anno quando ho visto arrivare da Mosul, in un solo giorno, 35mila persone. Oggi, solo, nel giardino della mia parrocchia ce ne sono 654. In questi mesi sono nati quatto bambini fra tende e roulotte. È gente che in ventiquattro ore ha perso ogni cosa».

Come si fa a sopravvivere? «Nel breve periodo dobbiamo curare le ferite. Ma per il lungo periodo dobbiamo far in modo che l’odio non si trasferisca alle generazioni future. Come si fa? Dobbiamo perdonare. Il tempo del perdono è il tempo della guerra, perciò è questo nostro tempo. Se perdoniamo vuol dire che siamo liberi, se non lo facciamo vuol dire che siamo come loro. E in questo l’educazione è fondamentale: l’Isis era un insetto, ma l’ignoranza diffusa l’ha fatto diventare un drago. La conoscenza è l’arma contro le menti vuote dei malvagi».

Conclude con la domanda più scomoda: «Siete sicuri di voler sapere cosa pensiamo noi cristiani iracheni di voi cristiani europei?». Silenzio. «Pensiamo che siete addormentati e che avete bisogno di una scossa. Siamo parte dello stesso corpo, ma la vostra parte dorme mentre la nostra soffre. Non sono qui a rimproverarvi, né per mendicare aiuto. Penso che finiranno per distruggere la nostra comunità. Ci uccideranno. Ma guardate la mia faccia: vi sembro spaventato? Anche la mia gente ha lo stesso volto: non abbiamo paura. La nostra fede è così importante che non ci arrenderemo».

E ancora: «Non abbiamo bisogno che qualcuno ci porti le bibbie. Voi mi dite che pregate per noi. E io vi ringrazio. Ma guardate la mia gente: sono loro il Vangelo. La preghiera è azione. Fra trenta o quarant’anni le nuovi generazioni forse dimenticheranno chi ci ha perseguitato, ma di certo non dimenticherà chi ha preso le nostre difese. Decidete ora se volete aiutarci davvero».

L’incontro finisce. Padre Bazi deve correre a prendere l’aereo. C’è tempo per l’ultima battuta quando studenti e professori gli danno un pacchetto regalo: «Cos’è? Una bomba?». Poi in auto, sulla strada verso l’aeroporto, una delle ragazze che lo accompagnano gli dice che lei, davvero, vorrebbe andare ad aiutarlo a Erbil. E lui è chiaro: «Proviamo. Non so se riusciremo davvero a farti venire. Ma questo è già quello che intendevo dire: che tu lo desideri è già una preghiera che diventa azione».

IL VIDEO DELL’INCONTRO

 

Fonte: Tracce.it

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