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Il potere, il male e la banalità del bene: Tolkien

HEIDELBERG — L’opus magnum cinematografico, Il Signore degli anelli, ispirato ai libri quasi omonimi di uno dei grandi della letteratura mondiale, John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973), è ora compiuto. Da qualche parte ho letto che il livello cinematografico raggiunto dal Signore degli anelli non è stato uguagliato dai tre film , usciti nelle ultime tre feste natalizie.

Non posso verificarlo visto che non sono un esperto cinematografico. Ma vedo una continuità di temi che credo debbano essere presi sul serio, se si vuole riflettere sul senso ultimo dell'”esistenza storica” (uso questa categoria di filosofia della storia nel senso usato da Ernst Nolte), anche se dal XX secolo al nostro, appena iniziato, sono accaduti (meglio: stanno accadendo) fatti che hanno forse spostato alcuni accenti con cui deve essere espressa un’ interpretazione del senso ultimo della esistenza storica stessa.

1. È chiaro che J.R.R. Tolkien ha espresso con la sua saga sull’anello del potere, introdotta con il piccolo Hobbit ed approfondita con “Il Signore degli anelli”, anche se a livello cinematografico siamo confrontati con una cronologia di realizzazione inversa, un’interpretazione del disastro umano avvenuto nel secolo delle ideologie. L’anello del potere si impossessa di chi lo possiede: ha un innegabile potere, ma non può essere usato per migliorare la situazione dell’uomo. Nessuna ideologia, anche se contiene elementi di verità, nazionali o internazionali, può migliorare il destino dell’uomo.
Solo un avvenimento può farlo e questo avvenimento non può che avere un carattere “negativo” (nel senso della “negazione della negazione” di Hegel): l’anello del potere deve essere distrutto.
Hans Urs von Balthasar ricorda — in una sua predica radiofonica sull’immacolata concezione — che per il grande storico svizzero Jacob Christoph Burkhardt, il potere è il male. Forse, spiega il teologo della  “Teodrammatica”, esso non lo è a livello “teorico”; ma a livello pratico, nell’esistenza storica, assume, se assolutizzato, come lo è stato per le ideologie, una dimensione di brutalità inaudita, quella che Tolkien cerca di “riflettere” nella sua grande saga dell’anello del potere.
Hannah Arendt riflette sulla dimensione banale del male stesso, ma ciò non toglie nulla alla sua virulenza. A livello “positivo” (propositivo) solamente un uomo (nel senso di interamente appartenente al genere umano), Maria, la ragazza di Nazareth, sconosciuta anche agli angeli, ha esercitato il potere più grande, quello di “far nascere Dio nel mondo” (Balthasar).
Maria, con la sua fecondità indifesa, con il suo potere impotente, è espressione ultima non della “banalità del bene” (Martin Walser), ma della sua presenza “quotidiana” nelle periferie dell’esistenza storica. Tutte le altre forme del potere, asservite ad un’anello del potere, non potranno che servire il maestro della menzogna.

2. Tolkien sceglie per questo compito di distruzione dell’anello del potere la più semplice delle sue figure fantastiche: non il mago Gandalf, non gli elfi immortali, quindi neppure Legolas, dal grande udito e dalla vista profonda, neppure i re; sebbene la figura del re giochi un ruolo molto importante nella saga, infatti Aragorn viene già  annunciato alla fine del terzo film dedicato allo Hobbit la figura di un hobbit che ha il compito di distruggere l’anello del potere. Dovrà rinunciare, per la realizzazione del compito, ad una sua quotidianità; piena di letture e scritture di libri, del fumare la pipa, di un ripetuto rituale del mangiare; ma come leggere libri se tutto intorno scoppia la brutalità del potere?
Queste semplici creature non sono ovviamente semplici e pure come la giovane di Nazareth, ma sono, a livello di una “favola”, figura di ciò che nella storia ha espresso il potere umano più grande, quello che nasce da una “fecondità; che non difende se stessa” (Balthasar) ma il compito ricevuto: fiat voluntas tua. Il compito nella saga di Tolkien è quello di distruggere l’anello, che dapprima viene usato da Bilbo, nell'”Hobbit”, ma che poi, nel “Il signore degli anelli” dovrà essere finalmente distrutto da Frodo, il nipote di Bilbo.

3. La terza parte de “Lo Hobbit” è quasi esclusivamente una continua battaglia, ma il grande tema dell’amicizia è presente e forse è anche l'”ultima” parola di senso nell’esistenza storica del grande narratore inglese. Ciò che lega Bilbo con Thorin, che alla fine della terza parte dell'”Hobbit” viene ucciso è l’ amicizia. Frodo poi ne “Il Signore degli anelli” non potrà distruggere l’anello senza l’amicizia con Sam, che accompagna il suo amico e padrone, ma sempre più amico e sempre meno padrone, fino al fuoco divorante di Mordor.
Questo tema mi sembra più attuale che mai. Solo l’amicizia gratuita è figura di quella fecondità; del potere indifeso, che porta il nome dell’Agnello immolato che non immola nessuno e che poi è la figura escatologica di ciò; che festeggiamo a Natale: il bimbo, vero Dio e vero uomo, nato in una stalla.

4. Forse però Tolkien si muove ancora in un’epoca di santità che chiamerei quella di san Giovanna d’Arco (1412-1431), il grande soldato di Dio, che la Chiesa ha ucciso – come fa dire nel Diario di un curato di campagna  Georges Bernanos ad un soldato amico del curato ; e che poi la Chiesa ha santificato (come fa rispondere nuovamente a quest’ultimo con le lacrime agli occhi; lacrime dovute alle falsità; e agli errori compiuti dalla Chiesa).

Fonte: Il Sussidiario

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